giovedì 31 luglio 2008


Sull’assegno sociale sono gravi le responsabilità del Governo che conferma le proprie intenzioni negative e discriminatorie nei confronti di immigrati ed italiani all’estero

Una finanziaria approvata in 9 minuti e mezzo in Consiglio dei Ministri, forzata attraverso un lavoro di Commissione che ha causato due disastri ammessi e riconosciuti dalla maggioranza – l’emendamento sui precari e quello sull’assegno sociale – fino al maxiemendamento con la fiducia che ha bloccato il Parlamento e quindi reso impossibile modifiche: ecco ciò che un pessimo governo ha fatto fare ad una pessima maggioranza. Danni particolari nel contesto di un danno collettivo. Sull’assegno sociale il Governo ha inteso unicamente emendare la parte relativa al reddito ma permane la condizione legata alla residenza: in sostanza, oltre alla cittadinanza italiana, alla residenza in Italia al momento della domanda, alla non portabilità dell’assegno – che non è esportabile – ed alle condizioni di reddito da non superare, sarà necessario poter far valere dieci anni di residenza legale in Italia per accedere all’assegno sociale. Modifica questa che non solo perpetua nel testo del decreto 112, la finanziaria breve introdotta da Tremonti, una discriminazione inaccettabile per i lavoratori extracomunitari che debbono invece godere di pari diritti e doveri. La norma anche emendata, inoltre, di fatto discrimina anche i cittadini italiani residenti all’estero ove decidessero di rientrare nel territorio italiano a causa delle situazioni di indigenza presenti in molti paesi di emigrazione.

Riacquisto della cittadinanza: lentezze, dubbi interpretativi e totale assenza di informazioni

Il tema del riacquisto della cittadinanza – regolato dall’articolo 13 della legge 5.2.1992, n. 91, ed in particolare dai punti c) e d) dell’articolo di legge – è particolarmente sentito per i connazionali all’estero che, naturalizzatisi nei Paesi di emigrazione, intendono utilizzare le norme per riacquistare la cittadinanza italiana. Da più parti è stato sollecitato il mio intervento per chiedere una maggiore informazione a comuni e questure sui contenuti di queste norme, per avere chiarezza interpretativa ed una maggiore omogeneità sia di approccio che di procedure amministrative adottate dai Comuni e per rendere più celere il rilascio del permesso di soggiorno utile ad attivare la procedura di iscrizione anagrafica e di riacquisto della cittadinanza. Ho presentato una interrogazione a risposta scritta, rivolta al Ministero degli affari esteri ed al Ministero dell’Interno, che chiede appunto tutto ciò. In particolare chiede che, per il riacquisto immediato previsto per coloro che dichiarino di rientrare definitivamente nel territorio nazionale e richiedano espressamente il riacquisto, vi sia una procedura veloce per il rilascio del permesso di soggiorno necessario alla iscrizione anagrafica ed indispensabile per il riacquisto. Ecco il testo dell’interrogazione.

FEDI -
Al Ministro degli affari esteri e al Ministro dell’Interno
Per sapere - premesso che:
il riacquisto della cittadinanza italiana è regolato dall’art. 13 della legge 5.2.1992, n. 91,
il punto c) dell’art. 13 prevede una dichiarazione di volontà da parte di tutti coloro i quali sono interessati al riacquisto della nostra cittadinanza per averla perduta a qualsiasi titolo e età,

tale dichiarazione di volontà può essere resa presso gli Uffici consolari di provenienza e successivamente presentata al Comune in Italia oppure direttamente al Comune italiano ove si desidera stabilire la propria “residenza elettiva”,

l’iscrizione anagrafica in questo caso può avvenire solo dietro rilascio di un apposito permesso di soggiorno ed il riacquisto della cittadinanza italiana è in questo caso immediato,

il punto d) dell’art. 13 prevede il riacquisto automatico della cittadinanza italiana dopo un anno di residenza in Italia -:
quali urgenti disposizioni od iniziative si intendano adottare per evitare il ripetersi di situazioni in cui i Comuni si attengono a criteri non omogenei e/o in palese contraddizione con l’applicazione delle predette norme,

quali informative urgenti si riterrà opportuno adottare per informare Comuni e Questure,

quali urgenti disposizioni od iniziative si intendano adottare per rendere celere il rilascio del permesso di soggiorno utile ai fini dell’iscrizione anagrafica e necessario per il riacquisto immediato della cittadinanza italiana.

mercoledì 30 luglio 2008

Intervento On. Marco Fedi su ratifica del Trattato di Lisbona

L’Unione europea, l’Unione dei cittadini e delle nazioni, ha oggi bisogno di ritrovarsi attorno ad un’idea forte di cittadinanza, di appartenenza, di impegno comune.
La ratifica del trattato di Lisbona non è solamente un passaggio intermedio dopo il tentativo di approdare ad una Costituzione europea, dopo il tentativo di approvare un singolo atto politico costituente che disegnasse in maniera inequivocabile chi siamo e dove andiamo come cittadini dell’Unione.
La ratifica del trattato di Lisbona non è solo un compromesso possibile dopo bocciature referendarie, una presa d’atto delle nostre paure, dei nostri dubbi, delle nostre ritrosie nazionalistiche, localistiche e protezionistiche. Il Trattato di Lisbona è una nuova opportunità di crescita per tutti i Paesi dell’Unione. Per Paesi che possono ritrovarsi in un ambizioso progetto costituente, nonostante il momento di incertezze e di paure. Paesi che possono evitare il rischio di chiudersi ed allo stesso tempo essere più. Essere più che sole regole comuni, essere più che la somma dei singoli Paesi. Il trattato di Lisbona recepisce lo spirito e talvolta la lettera dei precedenti trattati istitutivi dell’unificazione europea e della stessa Costituzione. Rappresenta una seconda via verso il completamento del percorso di unificazione, non meno impervia, dopo l’Irlanda, ma ancora foriera di positivi sviluppi e di nuove opportunità.
Tutto ciò nonostante sia stato tolto ogni riferimento esplicito alla natura costituzionale nel testo e siano stati eliminati i simboli europei. E nonostante si sia tornati a parlare di regolamenti e direttive per gli atti dell’Unione.
Non esisterà un solo trattato (come sarebbe stato per la Costituzione europea), ma saranno riformati i vecchi trattati. Il Trattato di riforma modificherà quindi il Trattato sull'Unione europea (TUE) e il trattato che istituisce l’Unione europea che diventerà il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Ad essi vanno aggiunti la Carta dei diritti fondamentali e il Trattato Euratom.
Con un preambolo che si ispira “alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili, dei diritti della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello stato di diritto”.
I diritti inviolabili della persona sono anche i diritti di chi arriva sulle nostre sponde o di coloro che hanno bisogno di essere salvati dal mare o di chi ogni giorno ci chiede speranza e di chi ogni giorno ci chiede di essere protetti e tutelati.
Anche quando non sono cittadini comunitari.
E la risposta dell’Unione europea, anche quando potrebbe essere unitaria, e spesso non lo è,
e noi dobbiamo continuare a lavorare affinché lo sia sempre più,
non può comunque mai venir meno ai principi che torniamo ad affermare con nettezza nel trattato di Lisbona.
Un trattato che all’Articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali, allegata al trattato, recita: “E’ vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata in particolare sul sesso, la razza, il colore della pelle, o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione, le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”; ed esprime in questo modo più che un semplice orientamento ma un forte impianto etico che ci impegna nell’affermare sempre i valori dell’uguaglianza.
Anche quando si tratta di questioni legate alla sicurezza, anche quando vogliamo catalogare le persone.
Un trattato che all’Articolo 167 prescrive: “L’Unione contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune”; evidenziare il comune retaggio e valorizzare le diversità culturali. Un progetto di integrazione culturale che è sempre più necessario, anche per favorire l’integrazione di altre culture.
Un trattato che, respingendo il concetto di “Fortezza Europa”, apre in sempre più ampia misura l’Unione al mondo e propone la figura di un ministro degli Esteri che avrà il titolo di “Alto rappresentante per la politica estera e sicurezza comune” e sarà anche vicepresidente della Commissione. Una politica estera multilaterale ed una politica internazionale aperta, rafforzate nel ruolo importante assegnato in seno alla Commissione.
Ecco, il trattato di Lisbona riprende e rafforza tutti i principi e le funzioni dell’Unione Europea adattandoli alla dinamicità dei tempi senza mortificare le identità nazionali.
Anzi, lasciando maggiori spazi alle iniziative dei parlamenti nazionali sui meccanismi delle decisioni comunitarie.
Il Trattato di Lisbona contempla diritti civili, politici, economici e sociali. Mantiene, dunque, i diritti esistenti e ne introduce di nuovi.
In particolare garantisce le libertà e i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali, rendendoli giuridicamente vincolanti. Il Trattato, che prevede nuovi meccanismi di solidarietà e garantisce una migliore protezione dei cittadini europei, integra la Carta dei diritti fondamentali nel diritto primario europeo.
Vengono meglio delimitate le competenze dell'UE e degli stati membri, esplicitando che il "travaso di sovranità" può avvenire nei due sensi. Quindi maggiore democrazia e partecipazione da parte dei cittadini. Viene introdotto il metodo decisionale della doppia maggioranza, a pieno regime dal 2017. Aumentano i poteri dei Parlamenti nazionali che hanno più tempo per esaminare le leggi comunitarie e rimandare alla Commissione. Fino alle questioni ambientali e delle politiche migratorie.
Ecco, il voto di ratifica del Parlamento italiano deve essere un autentico atto politico che vuole affermare – in ogni momento – la nostra passione per un’Unione europea impegnata ad integrare i propri popoli e a tutelarne i diritti civili, sociali e politici. L’Unione europea rappresenta un’opportunità di crescita politica ed economica: sarebbe necessario crederci sempre, anche recependone le direttive e dimostrando serietà anche rispetto ai rischi di attivazione di procedure d’infrazione. Il Governo su questi temi deve essere convincente e coerente. Lo misureremo nei prossimi mesi. Lavoreremo affinché, insieme, si possa brindare alla piena adozione del trattato di Lisbona.
30 luglio 2008

venerdì 25 luglio 2008

La virgola. Un occhio attento alle cose italiane... Parlamentari e non...


La scorsa domenica, durante il congresso della Liga Veneta, Umberto Bossi ha alzato il dito medio esclamando «mai più schiavi di Roma» in riferimento al celebre verso dell’Inno di Mameli.
L’ennesima volgarità del fondatore della Lega Nord fa tornare in primo piano la solita domanda: come può un personaggio di tale risma essere il ministro delle Riforme di un Paese normale? Ma forse l’Italia non è un Paese normale…
Non è tanto una questione di patriottismo ad animare questi miei pensieri. Credo che sia semplicemente intollerabile sopportare la sequela di attacchi allo Stato italiano, ai suoi simboli e alle sue istituzione, ai suoi cittadini meridionali, agli stranieri, che Bossi ha ripetuto da quando è in politica, condendoli sempre di trivialità e pochezze.
Non possiamo abituarci a tali esternazioni per una ragione fondamentale: è inaccettabile assistere impotenti all’abbassamento del livello della politica italiana. Bene ha fatto, allora, Veltroni a chiedere ai Presidenti di Senato e Camera e al premier di prendere le distanze. Ma mentre Schifani e Fini hanno espresso un distinguo che dovrebbe essere scontato, così non è avvenuto per quanto riguarda Berlusconi. Il capo del governo ha mantenuto il silenzio per non urtare un alleato per lui essenziale, dal quale dipende la tenuta in Senato della sua maggioranza. Proprio nei giorni scorsi, infatti, la Lega Nord aveva “strozzato” le indigeste limitazioni alla magistratura varate o in corso di approvazione da parte del governo delle destre.
Come se non bastasse, Bossi ha offeso durante la stessa iniziativa anche i docenti meridionali, sostenendo che i rampolli leghisti «sono disorientati e non si meritano certi insegnanti». Peccato che senza questi ultimi le scuole del Nord non andrebbero avanti.
Da non sottovalutare, quindi, questo episodio di squallore politico ma che non deve in alcun modo distrarci da altri elementi profondamente legati al momento politico: i ricatti e le minacce leghiste, tutte imperniate sull’ottenimento di una riforma in senso federalista dello Stato, l’azione nuovamente denigratoria, come avvenuto in passato, su riforme già approvate – Calderoni dichiara un errore l’eliminazione dell’ICI – e l’uso strumentale di questa prospettiva da parte di Berlusconi che è riuscito a far passare l’immunità per le più alte cariche dello Stato, che farà passare anche alla Camera, come al Senato, la ratifica del trattato di Lisbona nonostante le resistenze storiche della Lega Nord.

Quale sicurezza?

È giunto alla sua approvazione definitiva, tramite il ricorso alla fiducia in Senato, il cosiddetto pacchetto sicurezza. “Cosiddetto” perché contiene tutto e il contrario di tutto. Figuriamoci che, allo scopo di garantire maggiore sicurezza ai cittadini, il governo delle destre aveva pensato bene di sospendere per un anno tutti i processi per reati inferiori ai 10 anni! Poi, con il varo del Lodo Alfano (che congela i procedimenti giudiziari per le quattro più alte cariche dello Stato), ha risolto il problema dei processi in carico al premier Berlusconi per tutto il resto della legislatura: semplicemente li ha bloccati. Si è quindi deciso di tramutare l’emendamento slitta-processi del decreto sicurezza nel rinvio fino a 18 mesi, a discrezione degli uffici giudiziari, dei processi per reati minori commessi dopo il 2 maggio 2006.
Ma i paradossi del decreto sicurezza non finiscono qui. A dimostrazione della demagogia insita in tale decreto legge, mentre si sbandiera ai quattro venti la questione della sicurezza, contemporaneamente si operano tagli alle forze dell’ordine. È stato il Capo di Stato maggiore della Difesa in una audizione alla Camera a riferire che le forze armate sono al limite e l'Ugl (non certo un sindacato “di sinistra”) ha ricordato che il 61% degli operatori delle forze dell'ordine vive con 1.200 euro al mese. Di fronte a questo quadro però il governo Berlusconi ha deliberato l’impossibilità di reintegrare il personale delle forze dell’ordine che andrà in pensione “coatta” (40.000 donne e uomini) e ha deciso di togliere oltre 3 miliardi di risorse dai bilanci delle Forze di polizia ed armate.
È soprattutto per queste ragioni – oltre alla militarizzazione dei territori con l’invio dei soldati nelle città e all’aggravante di clandestinità nei processi – che il PD ha scelto giustamente di bocciare il decreto.

giovedì 24 luglio 2008

Dichiarazione di voto sull'odg presentato alla manovra economica

La discussione che sta avvenendo in questa aula è importante poiché questa assemblea legislativa è stata limitata nelle sue prerogative costituzionali, su tutta una serie di importanti provvedimenti.
Provvedimenti economici e di bilancio che oggi si rivelano sostanzialmente basati su tagli. Provvedimenti sulla giustizia legati a logiche ad personam, quelli sulla sicurezza legati all’emergenza – che non c’è – per mettere poi in campo una serie di norme restrittive verso gli immigrati.
Anche chi vive regolarmente in Italia.
Come avviene con le restrizioni sull’assegno sociale che avranno conseguenze negative anche per i cittadini italiani. Tanta cattiva politica in poco tempo. Tanti cattivi esempi in poco tempo: dagli attacchi all’unità nazionale a quelli sulla sicurezza con i tagli alle forze dell’ordine. Ai ripensamenti sull’abolizione dell’ICI già presenti in pezzi di maggioranza.
Tanti tagli che hanno colpito pesantemente il Ministero degli affari esteri ed in particolare le politiche a favore delle comunità italiane nel mondo. Tutto ciò quando già le dotazioni complessive assegnate al Ministero degli affari esteri, per il suo funzionamento, per la politica di cooperazione allo sviluppo, per la politica internazionale ed estera, per le politiche a favore delle comunità italiane nel mondo – inclusa quindi la rete diplomatico-consolare – sono largamente insufficienti. In termini di percentuale di prodotto interno lordo, in termini di capacità di rispondere agli impegni concreti assunti dal nostro Paese ed in termini di erogazione di servizi.
Una valutazione che arriva anche dopo i tagli apportati dal decreto 93 sulla salvaguardia del potere di acquisto delle famiglie.
Tagli previsti in misura pesante in questo provvedimento, ed anche dal mancato recupero di 80 milioni di euro in sede di assestamento di bilancio.
In questo senso, dopo la vicenda ICI, sul cui esonero per i cittadini italiani residenti all’estero vi sono unicamente degli ordini del giorno accolti dal Governo, poniamo all’attenzione del governo la questione delle detrazioni per carichi di famiglia.
L’ordine del giorno sulle detrazioni per carichi di famiglia dei residenti all’estero, parte da una considerazione di fondo che concerne l’equità e la parità di trattamento, elementi che ponemmo alla base della richiesta di estensione del nuovo regime fiscale, quello delle detrazioni per carichi di famiglia, introdotto con la Finanziaria 2007, anche a coloro che vivono e lavorano fuori dai confini nazionali, ai cittadini italiani all’estero. Con la manovra finanziaria per il 2007 rimettemmo sulla giusta via i conti pubblici. Ma lo facemmo proteggendo i più deboli e prevedendo nello stesso tempo molte misure a sostegno dello sviluppo. Senza queste misure l’aggiustamento, necessario, avrebbe pesato soprattutto sulle fasce sociali più deboli.
Rispondemmo ad un impegno sostanziale e formale con l’Unione europea: fare una manovra per riportare il deficit pubblico nell’ambito dei parametri di Maastricht. Nello stesso tempo ridistribuimmo ai redditi medi e bassi con un intervento che riguardò aliquote e scaglioni di imposta, con la trasformazione delle deduzioni in detrazioni e l’innalzamento della soglia di reddito sotto la quale le imposte non sono dovute.
Ho voluto ricordare questi passaggi, colleghe e colleghi, perché in questa manovra economica manca l’impegno per le famiglie, manca l’impegno redistributivo, come è mancato nel provvedimento per la salvaguardia del potere di acquisto delle famiglie, e, nell’emergenza economica evocata dal Ministro Tremonti, emergenza anch’essa tra le tante emergenze evocate da questo Governo, manca un pezzo importante che riguarda il sostegno ai redditi da lavoro ed alle pensioni.
L’ordine del giorno, accolto dal governo, impegna a predisporre un’apposita norma tesa a superare il limite temporale 2007, 2008 e 2009 prevedendo la definitiva e permanente estensione delle detrazioni fiscali per carichi di famiglia ai residenti all’estero.
Prevedendo modifiche alle procedure previste dal regolamento, semplificandole anche attraverso il maggior utilizzo dell’autocertificazione.
Lo riteniamo un atto dovuto ed un impegno in direzione dell’equità e della parità di trattamento, nella misura in cui si darà corso a tutti gli ordini del giorno sui quali vi è stato accoglimento da parte del Governo. Quando passeremo dalle parole ai fatti.

giovedì 17 luglio 2008

La virgola, Un occhio attento alle cose italiane …Parlamentari e non …


Le responsabilità di Governo ed opposizione vanno distinte, altrimenti si fa tanta confusione ed anche… demagogia

Nella trascorsa legislatura, nella prima durissima finanziaria 2007, che ebbe al centro l’obiettivo del risanamento dei conti pubblici, come parlamentari de l’Unione riportammo un ottimo risultato con il sostanziale mantenimento dei capitoli di bilancio per gli italiani all’estero, e l’estensione, nello stesso provvedimento, delle detrazioni per carichi di famiglia agli italiani residenti all’estero. Nella finanziaria 2008 puntammo ad un incremento degli stanziamenti per gli italiani all’estero, alla estensione della quattordicesima sulle pensioni INPS agli italiani all’estero, ottenemmo l’estensione dell’ulteriore detrazione ICI sulla prima casa anche per gli italiani all’estero, l’istituzione di forme di assistenza sanitaria per gli italiani indigenti anticipatrici di una proposta di assegno di solidarietà sulla quale si erano già espresse favorevolmente sia la commissione di merito che altre commissioni della Camera dei deputati. Nonostante tutto ciò, dalle fila maggioranza di allora non mancarono le occasioni di aperta critica all’operato del Governo, critiche anche aspre. Ricordo le posizioni critiche sullo stralcio dalla riforma della cittadinanza dell’ipotesi di riapertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza italiana e la critica – decisamente più politica – ad impegnarsi in maniera più decisa in direzione delle riforme strutturali anziché operare esclusivamente nel contesto delle manovre di bilancio.
Devo dire che questa ultima critica si è rivelata – ahimè – anticipatrice di eventi che oggi sono sotto gli occhi di tutti: tagli per 17 milioni di euro con il decreto sulla salvaguardia del potere di acquisto delle famiglie, che esonera dall’ICI tutti, fuorché gli italiani all’estero, ed elimina l’ulteriore detrazione ICI introdotta da Prodi che, di fatto, già ne esonerava la gran parte, tagli ancora nell’assestamento di bilancio con il Ministero degli affari esteri che potrà recuperare solo 8 milioni anziché gli 80 previsti e con possibili altri tagli nella stessa fase di assestamento interna al MAE, ulteriori tagli a tutti i ministeri e quindi anche al Ministero degli affari esteri, previsti dalla conversione in legge del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria. Se infatti avessimo optato per riforme strutturali sarebbe stato molto più difficile per l’attuale maggioranza eliminare in pochi mesi di malgoverno tutto ciò che è stato costruito in 18 mesi di buon governo.
Credo che l’autocritica sia elemento fondamentale del dibattito e del confronto politico. Il centro destra non ne sta facendo! Non solo. Nella precedente legislatura facemmo dei passi in direzione dell’incontro e del dialogo. Passi che partirono proprio dalla maggioranza di allora, per cercare di fissare un percorso comune verso le riforme. In questa legislatura il centro destra non si muove. Credo si possa arrivare alla conclusione che i nostri passi di allora vennero dettati dalla consapevolezza di avere un Governo pronto all’ascolto, anche se poi non sempre abbiamo risolto tutte le questioni che abbiamo posto all’attenzione dell’esecutivo. Mentre oggi i parlamentari eletti tra le fila del Popolo della Libertà percepiscono che il Governo Berlusconi è poco incline a prestare attenzione e orecchio alle comunità italiane nel mondo. A dare risposta a richieste che – è bene ricordarlo – sono state al centro di precisi impegni elettorali, anche della maggioranza.

domenica 6 luglio 2008

Intervento di Marco Fedi al convegno "Migranti come noi", organizzato dai parlamentari PD eletti all'estero

Vorrei iniziare con l’esperienza di alcuni giorni fa, a Tunisi, nel contesto di un interessante convegno sul dialogo interculturale, dove durante due momenti di dibattito attorno ai temi dell’integrazione, del dialogo tra religioni e culture, sono state poste due domande precise alla nostra attenzione.
La prima domanda è se riteniamo che stiamo vivendo uno scontro tra occidente e oriente e se questo scontro è contrastabile e con quali mezzi. La seconda domanda poneva invece accenti critici sugli organismi sopranazionali e sulla loro incapacità di dare risposte efficaci, capaci di fornire indirizzi, scelte strategiche e di cambiare in positivo la vita delle persone.
Il convegno ha provato a dare alcune risposte. La visione di uno scontro, in corso o imminente, tra occidente ed oriente è fuori dai tempi e dalla storia ma è alimentato proprio dalle stesse forze che vogliono l’emergenza, che usano le paure, che chiedono la chiusura alle contaminazioni.
La contaminazione culturale, linguistica e religiosa – oggi possibile senza invasioni, guerre, dominio coloniale – ci offre invece l’opportunità di aprire le nostre società mantenendo un sistema di regole condivise.
Sono d’accordo con chi dice che l’Unione Europea è il nostro orizzonte di riferimento e che da essa può venire una risposta al problema dell’integrazione virtuosa tra civiltà diverse. Ma nella situazione attuale sta accadendo il contrario: in controtendenza rispetto al suo progetto originario, oggi l’Europa si chiude anziché aprirsi, come dimostrano la crisi dei trattati di Lisbona, Barcellona e Schenghen. Si verifica allora una singolare e pericolosa eterogenesi dei fini: quegli organismi internazionali che dovrebbero favorire l’apertura finiscono per essere accordi instabili tra soggetti statuali differenti, ognuno impegnato nella propria politica, senza concertare realmente soluzioni comuni a problemi comuni, tra cui quello dell’immigrazione.
Ciò dimostra come gli organismi sopranazionali non siano un ostacolo ma anzi una spinta a quei processi di contaminazione di cui dicevo, solo se la guida politica è forte, se si adottano sempre più scelte di politica internazionale multilaterale, se, in sostanza, si fa meno politica estera dettata da interessi nazionali e più politica internazionale dettata dagli interessi di tutti – recuperando quindi caratteri di universalità nel pensiero e nell’azione politica. Ogni riferimento ai trattati di Lisbona e Barcellona è puramente casuale. Ogni riferimento alla necessità non di restringere ma di ampliare Schenghen, è puramente casuale.

La realtà è che i nostri Paesi rischiano di chiudersi. Le logiche della paura che oggi vengono utilizzate sono molto pericolose perché legano elementi tra loro distinti. La sicurezza e l’immigrazione, ad esempio. Per quale ragione il dibattito politico italiano confonde immigrazione, Rom e sicurezza, temi sicuramente importanti, ma che andrebbero trattati distintamente? L’impressione netta è che il Governo stia sondando il terreno e verificando – sul terreno pratico – come meglio utilizzare le logiche della paura che, pur avendo prodotto un risultato in campagna elettorale, non sempre sono immediatamente trasferibili nell’azione di Governo. Il clima politico e sociale si sta rapidamente surriscaldando, con i recenti fatti di violenza marcatamente segnati da un misto di intolleranza, razzismo, xenofobia.
Il tema della sicurezza – ad esempio – riguarda sempre tutti. Non solo i cittadini italiani. Riguarda i cittadini italiani, anche residenti all’estero, come i turisti, i temporaneamente residenti in Italia – per motivi di studio e di lavoro – gli immigrati, sia regolari che irregolari. La sicurezza riguarda tutti poiché è interesse di tutti poter vivere, lavorare ed integrarsi in serenità, armonia e nel pieno rispetto delle leggi. Non esiste altro percorso. Se desideriamo una società aperta dobbiamo costruire le condizioni per determinare i flussi d’ingresso, le politiche d’integrazione, le politiche di tutela ed il rispetto delle leggi dello Stato, con analoga severità per chiunque non le rispetti. La Costituzione della Repubblica italiana, prima che le scelte politiche, ce lo impone.
L’immigrazione regolare è utile all’Italia, è necessaria in termini economici ma anche in termini culturali e sociali. L’immigrazione irregolare, se determinatasi per incapacità del sistema di gestire i flussi o per incapacità del sistema di definire flussi rispondenti ai bisogni del Paese o per incapacità del sistema a garantire criteri realistici per la regolarizzazione, deve essere combattuta proprio dando risposta alle insufficienze del sistema, attraverso le riforme. La prima vittima della violenza, del razzismo e della xenofobia è proprio la capacità di vedere lontano. Vedere a 25,000 mila chilometri di distanza.
Abbiamo una sola Australia, ma due dimensioni, due lati della stessa medaglia. La positiva esperienza di integrazione civile degli immigrati in Australia che ha il suo fulcro nel rispetto della diversità culturale delle comunità, nelle scelte politiche nazionali e statali contraddistinte da un solido coordinamento, nell’offerta di servizi sociali ad ampio spettro.
La politica del multiculturalismo, sviluppatasi con la creazione di strumenti tesi a mantenere e sviluppare l’identità culturale delle persone – come l’SBS, rete radiotelevisiva multiculturale o gli Office of Multicultural Affairs nei vari stati o i provvedimenti legislativi contro la discriminazione razziale, religiosa o culturale – non ha mai confuso il tema dell’appartenenza ad un Paese, l’Australia, di cui si abbracciano lingua, cultura, tradizioni, valori e principi proprio con la “naturalizzazione”, cioè la libera scelta di diventare cittadini australiani. La politica multiculturale ha messo tutti noi immigrati in grado di dare il meglio della nostra identità per essere australiani “non omologati”, persone che costruiscono una realtà che è ricca e composita, diversa. Dicevamo, un tempo, vogliamo determinare “what kind of australians we are going to be”, che tipo di australiani saremo, e vogliamo farlo mantenendo la nostra cultura, identità, lingua, religione, perché così facendo davvero miglioriamo “the social fabric” il tessuto sociale in cui viviamo, le opportunità di conoscenza e crescita reciproca, le opportunità anche di sviluppo economico, il nostro modo di essere australiani e italiani e europei e… mediterranei… e universali, e qualsiasi altra cosa decidiamo di essere, liberamente decidiamo di essere. Questa condizione è stata raggiunta in due modi: flussi regolati e decisi in base a stringenti interessi nazionali, controlli severissimi ai confini, sia di terra che di aria e mare, accordi con i paesi da cui partono le imbarcazioni della speranza.
Abbiamo, accanto a queste scelte politiche, rispetto alle quali possiamo discutere, anche da posizioni diverse, ma che rimangono ragionevoli, accanto a queste misure dicevo abbiamo l’Australia che ha deciso l’extraterritorialità delle isole del pacifico così da farvi arrivare le imbarcazioni della speranza evitando quindi l’obbligo di dare assistenza legale ai richiedenti asilo. L’Australia dell’episodio della Tampa, l’imbarcazione norvegese a cui non si consentì l’attracco in porti australiani. Le condizioni nei centri di detenzione australiani con molti documentati episodi di autolesionismo – condizioni ripetutamente denunciate da organizzazioni internazionali. E le ultime restrizioni, in ordine di tempo, in termini di cittadinanza, anch’esse introdotte dal Governo Howard.
Questa seconda Australia si chiudeva ogni giorno di più. Agiva contro principi umanitari decisi dalla comunità internazionale molti anni fa, come l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati politici che stabilisce che “i clandestini a bordo di navi devono essere accolti dal porto più vicino al quale si trovano nel momento in cui vengono individuati”. Utilizzava ogni strumento mediatico per contribuire a far nascere una sensazione di emergenza. Un’emergenza che non c’era. Prove di forza con le imbarcazioni che arrivavano e venivano intercettate, la detenzione, molto simile alla carcerazione, in luoghi isolati dell’interno dell’Australia.
Un Paese imperfetto, quindi l’Australia.

L’Italia ….. invece …. Paese perfetto!

Il decreto sicurezza, che ora passa alla Camera, ci propone un’Italia militarizzata, ma solo nelle immagini. Quindi, alla politica sostituiamo l’immagine, alle riforme le enunciazioni tese a creare l’emergenza che non c’è, alle forze dell’ordine cui siamo abituati i militari con mitra. Non ci preoccupano derive “antidemocratiche” o “dittatoriali” ma l’inutilità di una norma che porta sul territorio solo “l’immagine” dell’esercito che andrebbe utilizzato in bel altre circostanze per operazioni di controllo del territorio. Un altro aspetto inammissibile del decreto è l’aggravante di un terzo della pena per i clandestini. Ancora una volta una misura aliena al diritto di tutti i Paesi civili del mondo e utile solo a criminalizzare i migranti, senza governare il fenomeno. Ed il reato di “immigrazione clandestina”! Un reato, quindi con arresto immediato, che porterebbe davvero il nostro sistema giudiziario e carcerario in ginocchio. Ma non è questo che ci preoccupa: anche qui la questione centrale è l’immagine di durezza. Poiché sarà ingestibile questa norma, alla fine produrrà ciò che già produce la nostra legislazione, cioè la identificazione di coloro che arrivano in Italia senza visto o permesso di soggiorno, la loro accoglienza ed il rimpatrio. Come avviene in tutti i paesi imperfetti.

Non parlo dell’inserimento nel decreto sicurezza della norma “salva-premier”. Solo un paese perfetto può produrre in un unico provvedimento tanta cattiva politica.

Ma in Italia si assiste invece – l’ho visto bene in oltre due anni da parlamentare - a una situazione di mancanza di omogeneità nelle politiche per l’integrazione promosse dai soggetti pubblici, a livello centrale e periferico, che la riforma Amato-Ferrero avrebbe potuto in parte sanare, se non fosse stata accantonata dal nuovo governo.
Al contempo, spero che non venga abbandonato neanche il lavoro nella precedente legislatura fatto sulla riforma della legge sulla cittadinanza. Essa consentirebbe la riduzione sacrosanta dei tempi di attesa per ottenere la cittadinanza italiana, da dieci a cinque anni, per quelle persone immigrate che vivono regolarmente in Italia, lavorando e contribuendo, non solo sotto il profilo economico ma anche sotto quello sociale e culturale. Senza costi aggiuntivi, la riforma potrebbe inoltre favorire l’inserimento degli stranieri anche nell’ambito della partecipazione alla vita politica nazionale.

In conclusione, vorrei allora avanzare delle proposte concrete. Io credo che in primo luogo, per le ragioni già esposte, l’Italia dovrà guardare certamente alla sua collocazione europea e auspico il superamento della crisi attuale per una maggiore solidità politica dell’Unione nelle sue politiche comuni. Tuttavia, non posso che ribadire un mio convincimento: un governo globale delle migrazioni non può venire solo dal mero livello europeo, che è necessario ma non sufficiente, come ci dimostra anche l’episodio già citato della Tampa. Occorrerà invece un rafforzamento politico di tutte le istituzioni soprannazionali in un ottica di collaborazione e apertura.
Nel medio periodo, il problema principale che si pone è quello di un governo dei flussi che, responsabilmente, potrebbe avvalersi della cooperazione con i Paesi di provenienza dei migranti e che dovrebbe essere risolto ricorrendo sempre meno alla militarizzazione dei confini e alla detenzione dei migranti, con severità e disponibilità insieme. A ciò si aggiunge l’esigenza di investire su una seria governance dell’integrazione al fine di consentire a tutti gli immigrati regolari la possibilità di inserirsi nel Paese che li ospita, conoscerne la lingua e la cultura, accedere ai servizi sociali come sanità e istruzione, avere prospettive di collocamento professionale che non siano il “sommerso” o peggio la criminalità. Non potrà quindi mancare un lavoro attento di coordinamento e di monitoraggio sull’insieme delle strutture e delle istituzioni addette al governo dei flussi e dell’integrazione, se necessario attraverso la riforma o la costituzione di organismi ad hoc.
Ma ciò che mi preme maggiormente di ribadire, vista anche l’attualità del tema, è che non potrà nascere nessuna buona politica migratoria se non si spezzerà il binomio dannoso che lega nell’opinione pubblica – purtroppo anche per colpa di alcuni politici e di certi media – l’immigrazione alla sicurezza. Ridurre l’esperienza enorme dello spostamento delle persone nel mondo alla mera dimensione securitaria non permetterà di sfruttare le risorse sprigionate dal contatto tra civiltà diverse e può condurre al rischio di danni incalcolabili.

La virgola, Un occhio attento alle cose italiane …Parlamentari e non …

Migranti come noi. Accoglienza, integrazione, sicurezza, nell’esperienza dei parlamentari eletti all’estero

Questa settimana voglio dedicare la mia rubrica a raccontare qualcosa che mi riguarda in prima persona. Ma che in realtà riguarda un po’ tutti noi, e in particolare chiunque abbia conosciuto un’esperienza di migrazione.
Lo scorso 1° luglio si è tenuto a Roma un convegno organizzato da noi parlamentari del Partito Democratico eletti nelle circoscrizioni estere (oltre a me, gli on. Franco Narducci, Gino Bucchino, Gianni Farina, Laura Garavini, Fabio Porta e i sen. Nino Randazzo e Claudio Micheloni). Il titolo dell’incontro riassume il senso dell’iniziativa: “Migranti come noi. Accoglienza, integrazione, sicurezza, nell’esperienza dei parlamentari eletti all’estero”.
Come si può comprendere, il senso dei lavori è stato quello di confrontare le diverse esperienze di politiche per l’immigrazione nelle varie aree di provenienza di noi parlamentari italiani nel mondo. Oltre a un semplice raffronto tra punti di forza e di debolezza delle molteplici realtà, nel corso della mattinata è emersa una quantità di spunti di riflessione anche per l’Italia, che come sappiamo si trova ad affrontare, oggi più che mai, un difficile dibattito politico sui temi dell’immigrazione e su quelli della sicurezza dei cittadini.
Proprio per queste ragioni hanno preso parte all’incontro, riconoscendone il contributo originale, il ministro ombra degli Interni del PD, Marco Minniti, e il presidente del gruppo parlamentare, Antonello Soro, oltre al responsabile del PD per gli Italiani nel mondo Maurizio Chiocchetti e all’eurodeputato Gianni Pittella.
È stato in particolare Minniti ad auspicare il ripetersi di momenti di dibattito come questo, utili anche alla politica italiana, troppo spesso chiusa in un certo provincialismo. Il ministro ombra degli Interni ha attaccato a tal proposito il “grande errore” che sta compiendo il governo Berlusconi con il decreto sicurezza. In primo luogo esso sbaglia nel ridurre l’importante tema della governance dell’immigrazione alla sola questione della sicurezza, strumentalizzando una percezione di ansia dei cittadini che non va trascurata ma non può neanche diventare il pretesto per militarizzazioni del territorio, sospensioni dello Stato di diritto (si pensi all’emendamento inserito nel decreto che blocca decine di migliaia di processi per un anno, tra cui quello del capo del governo), xenofobe e odiose schedature delle impronte digitali dei bambini nomadi.
Forte dei dati che dimostrano come solo il 10% dei clandestini giunge per la prima volta in Italia e che il resto sono persone che hanno visto scadere il proprio permesso, Minniti ha dimostrato come la Bossi-Fini, emanata dal precedente governo Berlusconi, ha aumentato e non diminuito il numero di irregolari, sfavorendo l’integrazione di chi è in Italia per lavorare e si trova a dover scappare dalle forze dell’ordine, giungendo spesso nelle braccia della criminalità organizzata. Al contrario, l’esponente del governo ombra guidato da Veltroni ha ricordato come, ad esempio, nel caso dell’Albania, l’esplosiva situazione migratoria sia stata risolta dal governo di centrosinistra a fine anni novanta grazie ad un vasto accordo di cooperazione bilaterale, che ha favorito l’institution building e il controllo delle frontiere nel Paese illirico.
Ma ciò che più mi ha trovato concorde con Minniti riguarda il fatto che nel piano del governo attuale c’è “un errore di fondo: l’idea che, sull’immigrazione, l’Italia possa far meglio da sola, laddove invece la partita si gioca in un orizzonte più ampio”.
Anch’io nel mio intervento al convegno avevo infatti ricordato come i nostri Paesi, purtroppo, rischiano di chiudersi, sia al loro interno che verso l’esterno. Lo vediamo nella crisi di quegli organismi sopranazionali, come l’Unione Europea, che potrebbero favorire i necessari processi di contaminazione tra culture, tradizioni, religioni, lingue e civiltà diverse. Ma ciò è possibile solo in presenza di una guida politica forte, se si adottano sempre più scelte di politica internazionale multilaterale, se, in sostanza, si fa meno politica estera dettata da interessi nazionali e più politica internazionale dettata dagli interessi di tutti – recuperando quindi caratteri di universalità nel pensiero e nell’azione politica. Ogni riferimento alla crisi dei trattati di Lisbona e Barcellona è puramente casuale. Ogni riferimento alla necessità non di restringere ma di ampliare Schenghen, è puramente casuale.
Le logiche della paura che oggi vengono utilizzate sono molto pericolose perché legano elementi tra loro distinti. La sicurezza e l’immigrazione, ad esempio. Per quale ragione il dibattito politico italiano confonde immigrazione, Rom e sicurezza, temi sicuramente importanti, ma che andrebbero trattati distintamente? L’impressione netta è che il Governo stia sondando il terreno e verificando – sul terreno pratico – come meglio utilizzare le logiche della paura che, pur avendo prodotto un risultato in campagna elettorale, non sempre sono immediatamente trasferibili nell’azione di Governo. Il clima politico e sociale si sta rapidamente surriscaldando, con i recenti fatti di violenza marcatamente segnati da un misto di intolleranza, razzismo, xenofobia.
Il tema della sicurezza – ad esempio – riguarda sempre tutti. Non solo i cittadini italiani. Riguarda i cittadini italiani, anche residenti all’estero, come i turisti, i temporaneamente residenti in Italia – per motivi di studio e di lavoro – gli immigrati, sia regolari che irregolari. La sicurezza riguarda tutti poiché è interesse di tutti poter vivere, lavorare ed integrarsi in serenità, armonia e nel pieno rispetto delle leggi. Non esiste altro percorso. Se desideriamo una società aperta dobbiamo costruire le condizioni per determinare i flussi d’ingresso, le politiche d’integrazione, le politiche di tutela ed il rispetto delle leggi dello Stato, con analoga severità per chiunque non le rispetti. La Costituzione della Repubblica italiana, prima che le scelte politiche, ce lo impone.
L’immigrazione regolare è utile all’Italia, è necessaria in termini economici ma anche in termini culturali e sociali. L’immigrazione irregolare, se determinatasi per incapacità del sistema di gestire i flussi o per incapacità del sistema di definire flussi rispondenti ai bisogni del Paese o per incapacità del sistema a garantire criteri realistici per la regolarizzazione, deve essere combattuta proprio dando risposta alle insufficienze del sistema, attraverso le riforme. La prima vittima della violenza, del razzismo e della xenofobia è proprio la capacità di vedere lontano.
In conclusione, vorrei allora avanzare delle proposte concrete.
Nel medio periodo, il problema principale che si pone è quello di un governo dei flussi che, responsabilmente, potrebbe avvalersi della cooperazione con i Paesi di provenienza dei migranti e che dovrebbe essere risolto ricorrendo sempre meno alla militarizzazione dei confini e alla detenzione dei migranti, con severità e disponibilità insieme. A ciò si aggiunge l’esigenza di investire su una seria governance dell’integrazione al fine di consentire a tutti gli immigrati regolari la possibilità di inserirsi nel Paese che li ospita, conoscerne la lingua e la cultura, accedere ai servizi sociali come sanità e istruzione, avere prospettive di collocamento professionale che non siano il “sommerso” o peggio la criminalità. Non potrà quindi mancare un lavoro attento di coordinamento e di monitoraggio sull’insieme delle strutture e delle istituzioni addette al governo dei flussi e dell’integrazione, se necessario attraverso la riforma o la costituzione di organismi ad hoc. Ma ciò che mi preme maggiormente di ribadire, vista anche l’attualità del tema, è che non potrà nascere nessuna buona politica migratoria se non si spezzerà il binomio dannoso che lega nell’opinione pubblica – purtroppo anche per colpa di alcuni politici e di certi media – l’immigrazione alla sicurezza. Ridurre l’esperienza enorme dello spostamento delle persone nel mondo alla mera dimensione securitaria non permetterà di sfruttare le risorse sprigionate dal contatto tra civiltà diverse e può condurre al rischio di danni incalcolabili.