lunedì 23 maggio 2011

Il deputato democratico Fedi presenta un’interrogazione sulla tragica morte di Fabio Polenghi.

Il 19 maggio 2010 moriva a Bangkok, raggiunto da un colpo all’addome, il fotoreporter italiano Fabio Polenghi. Ucciso mentre documentava l’assalto finale delle forze governative all'accampamento del gruppo di opposizione politica UDD “camicie rosse”.
In quei giorni la Thailandia fu teatro di violente manifestazioni antigovernative. Numerosi furono gli scontri di piazza tra manifestanti e forze di sicurezza le quali ricorsero a un uso eccessivo della forza, compreso l’impiego letale di armi e di “zone di scontri a fuoco”. Gli scontri portarono in pochi giorni alla morte di settantaquattro tra manifestanti e passanti, undici membri delle forze di sicurezza, quattro medici e due giornalisti.
A distanza di dodici mesi dal tragico evento, Marco Fedi, deputato del Partito Democratico, ha presentato oggi un’interrogazione in cui si chiede al Ministro degli Affari Esteri quali iniziative siano state intraprese dal Governo italiano nei confronti delle autorità thailandesi al fine di fare chiarezza su quanto accaduto e sulle eventuali responsabilità, anche in ottemperanza a quanto sancito dalle norme internazionali applicabili.
Alla famiglia Polenghi, che proprio in questi giorni ha denunciato la totale indifferenza e inadeguatezza da parte delle autorità thailandesi nel fare chiarezza e nel fornire notizie e risposte esaustive alle domande poste attraverso i canali istituzionali internazionali e nazionali, Fedi esprime la sua vicinanza, auspicando che si faccia luce su quanto successo affinché il sacrificio di Fabio Polenghi, uno dei tanti operatori dell'informazione morti sul campo, non cada nel silenzio.

giovedì 19 maggio 2011

Perché continuare a non capire?

La XVI legislatura è stata inaugurata da una nuova stagione per gli italiani all’estero. La stagione del conflitto con gli organismi di rappresentanza, dei tagli a strutture e servizi, della disparità di trattamento. Con una strategia basata su alcuni punti fermi, ripetuti ogni giorno da chi ha responsabilità di governo, poi trasformatisi in azione politica di maggioranza.
La presunta duplicazione dei livelli di rappresentanza, mantra ideologico del Governo, ha tenuto banco a inizio legislatura. Arrivano poi i tagli ai capitoli di bilancio, la chiusura di sedi consolari, la chiusura di istituti di cultura e la riduzione di lettorati. Arrivano anche i tagli all’informazione, alle camere di commercio e ai patronati.
Governo e maggioranza sono poi incapaci nell’azione di tutela degli italiani all’estero, sul piano della parità sostanziale di diritti e doveri sanciti dalla Costituzione. Come dimostrato dal dibattito su esonero ICI, assegno sociale, detrazioni fiscali.
Momenti caratterizzati anche dall’assenza di riforme e di progetti. Con l’esclusione della riforma di Comites e Cgie. Alcuni di noi ritenevano che mancassero, sicuramente, le condizioni di urgenza e che la necessità andasse invece commisurata ai tempi e ai contenuti delle riforme costituzionali.
In sostanza si riteneva indispensabile avere un quadro delle modifiche previste alla rappresentanza parlamentare, prima di modularne l’assetto complessivo.
Oggi abbiamo un testo, pronto al voto al Senato, sul quale pesa il parere contrario del Cgie e dei Comites, sul quale sono emerse profonde divisioni con i deputati, internamente ai gruppi e alle forze politiche, sul quale pesano valutazioni critiche da parte delle associazioni, patronati e sindacati.
Il rischio nell’immediato è un sostanziale scollamento tra i soggetti che compongono il panorama della rappresentanza. E questo sarebbe un grave errore. Occorre fare in modo di mantenere sempre aperti i canali del dialogo. Comites, Cgie, Parlamentari e Associazioni rischiano di dilaniarsi su una proposta di riforma mentre mancano all’appello due elementi fondamentali. Manca un esecutivo che sia almeno disponibile all’ascolto, che sia attento a garantire almeno la difesa dei principi su cui si fonda il rapporto con gli italiani nel mondo, oltre a tutelare i diritti acquisiti promuovendo la parità di trattamento. Manca inoltre un forte rapporto con le comunità che non sia fatto unicamente di presenzialismo ma di proposta innovativa. In questo siamo tutti carenti. Anche le Associazioni, sia quelle attive sia le sigle vuote. Il problema è che la proposta che sarà votata dal Senato non risolve gli aspetti fondamentali. Non rende né più diretto né più chiaro il rapporto con la rete diplomatico-consolare, che intanto inizia a dare segnali di crescente insofferenza nei confronti della rappresentanza. Non rende più forte il rapporto con la comunità poiché mancherebbero ancora gli strumenti, da quelli finanziari, per svolgere un ruolo che oggi non può più essere unicamente consultivo, ma deve essere di raccordo e di collegamento, anche con le autorità locali. Non rende più importante il ruolo di Comites e Cgie poiché, per esserlo, occorrerebbe sempre un esecutivo che dimostri capacità d’ascolto.
Per queste ragioni non comprendo, davvero, lo sforzo dei colleghi senatori di opposizione nell’approvare un testo che alla Camera non potremo accogliere. Che dovremo stravolgere. Con un secondo rischio. Nonostante la contrarietà alla proposta emersa dai lavori del Senato, espressa dalla maggioranza dei deputati e senatori di opposizione eletti all’estero, se questa procedesse indipendentemente dalle posizioni espresse, esternamente e internamente ai gruppi e ai partiti, se fosse approvata nonostante il voto contrario degli eletti all’estero, porremmo ulteriormente in difficoltà la rappresentanza parlamentare. Un pericoloso gioco al massacro, peraltro inutile.
Dobbiamo chiederci che ruolo stanno svolgendo i deputati e senatori di maggioranza, in che misura sostengono, alla Camera come al Senato, il progetto di riforma.
Il confronto con Governo e maggioranza è stato aspro e teso. Non abbiamo concesso nulla come opposizioni, abbiamo sempre proposto una strategia di dialogo critico e ci siamo dichiarati pronti a un confronto sui contenuti. Eppure non è bastato. Non è bastato per chiarire le perplessità e per migliorare il testo prima del voto. È mancato anche un approfondito confronto interno ai gruppi e alle forze politiche, come invece è avvenuto per la riforma delle norme per l’esercizio in loco del diritto di voto. E questa è sana autocritica.
Non mi sorprende che chi crede in un progetto lavori per vederlo realizzato. Non ci si deve sorprendere, allora, quando i “non credenti” lavorano per non vederlo realizzato o per modificarlo. Evitiamo quindi il fuoco incrociato, sempre inutile e dannoso.
È sorprendente invece che il Governo, su un tema come questo, abbia preferito nascondersi dietro l’iniziativa parlamentare evitando in tal modo di aprire un confronto serio sui contenuti della riforma.
È sorprendente che una proposta di riforma di Comites e Cgie, ad esempio, non parta da un’analisi precisa di ciò che funziona, quindi da rafforzare, ed elimini o modifichi radicalmente ciò che non ha funzionato o è superato dai tempi. La riunione annuale di coordinamento tra la rete diplomatico-consolare, i Comites, il Cgie, le Associazioni, gli Enti gestori e i Parlamentari è il momento più importante della vita di questi organismi. In alcune realtà è sistematicamente ampliato anche ad altri momenti di coordinamento, come il Forum dei Parlamentari locali e il coordinamento dei giovani. Con risultati assolutamente inediti anche nei confronti dei Governi locali.
È sorprendente, infine, che ci si trovi costretti a dedicare molto tempo a una discussione che purtroppo appare sterile e vuota. Sono sorpreso anche di avervi dedicato uno spazio temporale sottratto ad altre attività, tra cui la soluzione di tanti microproblemi che ci arrivano direttamente dagli italiani all’estero.

On. Marco Fedi

venerdì 6 maggio 2011

mercoledì 4 maggio 2011

Speranza e voglia di riscatto

L’Italia ha bisogno di speranza e voglia di riscatto. Per uscire dal berlusconismo culturale, politico e sociale che l’attanaglia. Per uscire dallo “stallo” economico. Per ritrovare le ragioni della nostra storia comune, fatta anche di emigrazione.
Per queste ragioni le comunità italiane nel mondo celebreranno il 65° Anniversario della Repubblica italiana, dopo aver ricordato l’Unità d’Italia e l’Anniversario della Resistenza. Per ricordare che siamo parte di un percorso storico non ancora concluso, che ha ancora bisogno del nostro contributo, diverso nella forma, ma ancora essenziale nella sostanza.
Il contributo di chi non si arrende e continua a costruire futuro. Il contributo di migranti e cittadini che chiedono maggiore attenzione ed impegno da parte delle Istituzioni. Il contributo di chi promuove oggi, con la stessa convinzione e determinazione di ieri, la migliore immagine dell’Italia, le sue tradizioni e cultura e la sua lingua. Speranza e riscatto. Ancora oggi, davanti ai tagli, alle scelte politiche in aperto contrasto con le attese degli italiani all’estero ed alle continue disattenzioni del Governo Berlusconi e della maggioranza che lo sostiene.
La stessa speranza e voglia di riscatto dell’emigrazione, degli emigranti che ardono dal desiderio di costruire il proprio futuro. Cosa è cambiato nella percezione dell’emigrazione? Cosa è cambiato rispetto alla storia di chi, come noi, ha costruito il proprio futuro all’estero? Cosa c’è di diverso rispetto alla storia di chi arriva da Tunisi, Tripoli o Addis Abeba? Cosa c’è di diverso negli occhi di chi arriva a Lampedusa o viene intercettato prima di arrivare sulle sponde australiane ed è “internato” a Christmas Island?
Siamo diversi noi: accettiamo l’idea della mobilità ma non quella dell’emigrazione, termine al quale negli anni viene data una connotazione negativa. È diversa l’economia: l’uso strumentale della “mancata crescita” da parte degli industriali mentre crescono ricchezza, di pochi, e povertà, di molti, ha come conseguenza la perdita di tutele e di diritti, la perdita di responsabilità verso gli altri e verso i più deboli. Siamo sicuramente meno solidali. È diverso il mondo: sempre più globalizzato ma sempre più diviso. È diversa la politica: sempre più dettata da meschini ed immediati interessi elettorali. È diversa la politica internazionale: sempre più dettata dalla politica estera dei potenti.
Occorre guardare all’esperienza dell’emigrazione italiana nel mondo con occhio attento, vigile, non solo per attingervi umana solidarietà, non solo per valorizzarne il doppio binario, quello del contributo verso l’Italia e verso il nuovo paese di residenza, ma per comprenderne il valore identitario, il modello evolutivo e le dinamiche collegate ai processi di integrazione. È tutto ciò che in Australia definiamo “multiculturalismo”.
In sostanza non si tratta solo di ricordare come eravamo per capire chi arriva oggi, non si tratta unicamente di vedere la nostra immagine riflessa nello specchio della storia, non si tratta di cogliere l’esperienza maturata all’estero dalle nostre comunità, guardando a modelli di integrazione realizzatisi, ad esempio, in Australia o in Canada, o al modello di assimilazione americano, o la ghettizzazione culturale di altri modelli eurocentrici.
Siamo portatori di esperienza, è vero, ma l’Italia deve sviluppare il proprio modello. L’emigrazione italiana nel mondo ha attraversato la storia, con tutte le sue contraddizioni. Il bisogno di manodopera dei Paesi di arrivo. La guerra, la povertà, la miseria e le scarse opportunità di lavoro dei Paesi di partenza. La lotta per la sopravvivenza, contro razzismo e xenofobia, nelle società di accoglienza. L’integrazione o l’assimilazione o la ghettizzazione. Sviluppo economico e crescita hanno reso tutto diverso, più veloce. Oggi che crescita e sviluppo sono modelli del passato, oggi che occorre ripensare ai modelli stessi di società e dovremmo “risparmiare risorse”, oggi che le priorità di tanti paesi avanzati sono l’assistenza sanitaria, le pensioni, l’assistenza alla terza età, che cosa offre la nostra società a chi sogna un futuro migliore in questo o quel Paese? L’emigrazione può essere interpretata come un modello di sviluppo o stiamo semplicemente costruendo le nuove società dello “sfruttamento” di manodopera? L’immigrazione – come politica dei flussi, dell’integrazione, dell’accoglienza – in che modo e con quali strumenti deve essere affrontata?
L’emigrazione come politica, non solo flussi numerici. È contraddittorio che l’Italia non abbia ancora definito una politica dell’immigrazione. Un piano nazionale che preveda meccanismi tecnici e valutativi per fissare quote, flussi e categorie professionali privilegiate, oltre a definire gli obiettivi del processo di integrazione e gli strumenti e risorse da destinare ad un piano nazionale. Da affidare ad un Ministero delle migrazioni ma comunque da seguire come politica nazionale e non come emergenza sicurezza. È necessario sviluppare modelli di integrazione: non solo a livello territoriale, come fortunatamente già accade, ma anche sul piano nazionale. Lingua e cultura, informazione e servizi CALD – culturally and linguistically diverse – culturalmente e linguisticamente diversificati, non differenziati come vorrebbe la Lega Nord – nelle lingue di origine e promuovendo parallelamente la lingua italiana.
Le emergenze da gestire oltre le politiche ordinarie. Le emergenze vanno affrontate con razionalità, solidarietà e responsabilità. L’Italia deve agire consapevole di un ruolo di garanzia affidatole dalla comunità internazionale nei confronti dei profughi e degli immigrati che arrivano dal Nord Africa. L’Italia deve agire facendo pesare a livello internazionale questo ruolo e chiedendo condivisione di responsabilità.
Abbiamo invece un Governo che non esprime una chiara posizione, che promuove la paura e che ogni giorno semina dubbi ed incertezze con dichiarazioni contraddittorie. Oggi abbiamo il dovere della accoglienza. Perchè, come ho avuto modo di ricordare agli amici di Tunisi, “la voglia di riscatto dell’emigrazione, la speranza di futuro, il sogno di opportunità, il desiderio di emancipazione, tipico degli emigranti, di tutti gli emigranti, sono a volte più forti della storia e del suo modificarsi”, “ed i Paesi ed i Governi che non riconoscono questa legittima aspirazione dei migranti, che ne strumentalizzano gli sbarchi o gli arrivi con l’obiettivo di instaurare una perversa logica della paura o che ritardano l’azione politica di coordinamento e quella umanitaria della solidarietà, rischiano di commettere un crimine contro l’umanità”.

martedì 3 maggio 2011

Adelaide: il 25 aprile celebrato il 1 maggio

La cornice, offerta dalla città di Adelaide, è quella di domenica 1 maggio, per celebrare, insieme alla giornata del lavoro, anche quella della liberazione. Il 25 aprile si ricorda con una cerimonia presso il cimitero di Payneham e successivamente con un incontro conviviale al Fogolar Furlan.
Le ragioni della celebrazione si ritrovano nelle parole della reggente Consolare, Mariangela Sturaro, e del Presidente del Comites di Adelaide, Vincenzo Papandrea. Entrambi ricordano i caduti per la libertà, il sacrificio delle donne e uomini della resistenza e la comunità italiana di Adelaide. Sottolineano l’impegno, il senso del dovere e la costante partecipazione comunitaria, oltre alle conquiste di una comunità vivace ed integrata.
Intervengo brevemente per ricordare le ragioni che ci portano a celebrare insieme le date ed i momenti della nostra storia comune. Sottolineo il legame tra il 1 maggio, giornata dedicata al lavoro, ed il legame tra lavoro e libertà. Nell’esperienza dell’emigrazione sono identificabili sempre gli elementi della ricerca del lavoro e della libertà. Con il costante bisogno di affermazione del diritto al lavoro. Con il costante bisogno di tutela dei diritti delle persone.
Il 25 aprile dovrebbe unirci su valori, principi ed azione comune verso obiettivi di crescita sociale, culturale e politica. È questo il significato di una celebrazione, profondamente legata alla nostra storia, che ci lega anche alla storia australiana, che celebra in Anzac Day il ricordo di tutti i caduti, proprio il 25 aprile.
La coincidenza con la celebrazione del May Day, giornata dedicata alla valorizzazione del lavoro ed alla lotta a tutte le privazioni di libertà, dalla disoccupazione fino agli infortuni sul lavoro, ci consente di esprimere in questa giornata l’auspicio che su questi temi vi siano costante attenzione ed azione dei Governi e delle istituzioni democratiche.