1.
L’equità prima di tutto
Nei
giorni scorsi ho ricevuto messaggi di sostegno alla mie riserve sulla ingiusta
tassazione al 32.5% del reddito prodotto dai titolari di visto vacanza-lavoro
proposta dal governo australiano. Ho ricevuto, però, anche alcune osservazioni
critiche riguardo all’intervista rilasciata a Il Globo.
Sul
tema si possono certamente avere opinioni diverse, ma credo sia utile alla
discussione spiegare in maniera più precisa e articolata la mia posizione.
La
modifica che il Governo si appresta a introdurre dal 1° luglio 2016
riguarderebbe la residenza. Per stabilire il livello di tassazione occorre
determinare se si è residenti ai fini fiscali. Si risponde a un test e,
generalmente, chi ha trascorso in Australia un periodo ragionevole di tempo con
un impiego a carattere continuativo e una fissa dimora, può ragionevolmente
qualificarsi per la tassazione da residente e quindi, ove il datore di lavoro
abbia applicato una ritenuta del 32.5%, può recuperare a conguaglio, dopo la
presentazione della denuncia dei redditi, la differenza tra le tasse dovute e
quelle pagate. Oggi possiamo dire che per coloro i quali puntano, dal primo
giorno, ad una sistemazione professionale e lavorativa a carattere continuativo
esiste un forte incentivo ad essere in regola e a presentare denuncia dei
redditi. Dal 1° luglio 2016, con le modifiche alle norme sulla residenza,
avremmo tutti i lavoratori con visto vacanza-lavoro tassati all’aliquota fissa
del 32.5%, indipendentemente dalla qualità della residenza. Si creerebbe, così,
un forte incentivo a non essere in regola, alimentando quell’area di
sfruttamento che è stata più volte denunciata nei mesi scorsi.
Si
tratta, in definitiva, di una questione di equità fiscale a fronte di un visto
vacanza-lavoro che nasce con l’intento di avvicinare i giovani a cultura,
lingua e tradizioni di un altro paese. Ma questo dovrebbe avvenire in un regime
di equità, senza che questi giovani siano soggetti a sfruttamento o diventino
vittime di una palese discriminazione. Ecco perché il richiamo agli impegni
australiani in sede di International Labour Organization sono opportuni. Tra
l’altro è proprio l’organizzazione internazionale del lavoro (OIL), organismo
delle Nazioni Unite, ad occuparsi di questioni del lavoro attinenti alle
migrazioni e a garantire parità di trattamento tra lavoratori, assicurando
standard internazionali in materia contrattuale, sia per le condizioni di
lavoro che per i trattamenti economici.
2. La Camera ha approvato la proposta di legge in materia di
accesso del figlio adottato alle informazioni sulle proprie origini e sulla
propria identità, con 307 sì e 22 no. Il testo passa ora all'esame del Senato.
Si tratta di un risultato importante che offre a migliaia di
persone la possibilità di ricongiungersi alle proprie origini.
L’approvazione in prima lettura rappresenta un passo importante
di adeguamento del nostro ordinamento alle decisioni della Corte costituzionale
e della Corte europea dei diritti dell’uomo. Si sancisce un principio: al
diritto della madre che ha partorito nell’anonimato e che va tutelata nella
riservatezza, si affianca il diritto del figlio dato in adozione di conoscere
le proprie origini, sia per ragioni esistenziali sia per ragioni
medico-biologiche. Fino ad oggi, quelli del figlio sono stati diritti negati.
Con la nuova legge si introduce un meccanismo che consente all’adottato
non riconosciuto, attraverso i Tribunali per i minorenni, di far interpellare
la madre biologica per verificare se le cose sono cambiate e se vuole dare il
suo consenso a rendere noti i dati. La madre che non ha riconosciuto il figlio
conserva il diritto a confermare l’anonimato, che nessuno può violare. Ma può
anche dare la sua approvazione, come sempre più spesso accade, e offrire così a
quel figlio il conforto della conoscenza e del riconoscimento della propria
origine.
3.
Cittadinanza: a quando il cambiamento?
Nelle
prossime settimane dovrebbe aprirsi alla Camera la discussione sulla proposta
di legge d’iniziativa popolare di riforma della cittadinanza.
La
proposta di legge apporta delle modifiche alla legge 91 del 1992 per regolare
l’acquisto della cittadinanza italiana per i nati in Italia da cittadini di
altri paesi con regolare permesso di soggiorno e per ridurre il numero di anni
necessario per acquisire la cittadinanza italiana. Si tratta di una proposta
importante che affianca altre proposte di analogo tenore già depositate in
Parlamento.
Contemporaneamente
la Commissione affari esteri del Senato sta esaminando una proposta di legge
che raccoglie i principali aspetti sulla cittadinanza riguardanti le nostre
comunità all’estero. Si tratta di un testo unificato, specifico per gli
italiani nel mondo.
La
prima considerazione è relativa a come si comporteranno i gruppi parlamentari.
Dovremmo chiedere una prima consultazione tra i gruppi del PD per decidere se
il testo unificato che sta avanzando in Senato sia la proposta da sostenere,
con la conseguenza di non presentare emendamenti al testo che arriverà alla
Camera, che come abbiamo detto riguarda solo gli immigrati in Italia. Sarebbe
la strategia auspicabile, a condizione di avere la certezza che il Governo non
intralcerà l’iter. È un bel dire, infatti, che la cittadinanza è materia di
attenzione del Parlamento se poi si rischia di trovarsi di fronte ad un parere
negativo del Governo.
La
seconda considerazione riguarda l’esigenza di allargare la strategia sulla
cittadinanza agli eletti all’estero. Per quanto mi riguarda, punterei sul testo
che ha predisposto il Senato impegnando i gruppi di Senato e Camera a sostenere
e votare il provvedimento che affronta il riacquisto della cittadinanza e il
superamento della discriminazione verso le donne per quanto concerne la
trasmissione jus sanguinis della cittadinanza italiana.
La
terza considerazione riguarda l’attesa che il Governo, su alcuni temi centrali
degli italiani all’estero, assuma una posizione più precisa e definita.
Aspettiamo che qualcuno dica qualcosa in proposito.
4.
Quale percorso per la riforma della 153/71 sui corsi di lingua e cultura
italiane?
Sull’importante
questione della promozione della lingua e cultura italiane all’estero vorrei
cercare di chiarire di cosa si parla, quale sia il percorso che il sottoscritto
vorrebbe vedere realizzato e cosa sta facendo il Governo.
Gli obiettivi comuni
Realizzare
una riforma delle legge 153/71, nata in un tempo lontano per assistere i figli
degli emigrati in vista di un loro ritorno in Italia, e successive modifiche,
per migliorare la diffusione della lingua italiana nel mondo, renderla più
adeguata ai cambiamenti avvenuti nelle nostre comunità e garantire la
continuità dell’insegnamento nella scuola dell’obbligo e nel percorso formativo
delle persone in un quadro di eduzione interculturale.
I soggetti interessati
Modificare
l’orientamento iniziale della legge 153/71, cioè l’assistenza scolastica ai
figli dei migranti, ampliandola a tutti i cittadini dei paesi di emigrazione e
di presenza italiana nel mondo, come lingua di cultura, lingua comunitaria e
lingua straniera: in altre parole rivolgersi a tutti i soggetti, in età scolare
e adulti, fissando priorità secondo le esigenze locali.
Gli strumenti per realizzare gli obiettivi
Prima
questione: agenzia, dipartimento o ufficio di una Direzione generale? Seconda
questione: a chi assegnare le responsabilità gestionali e di controllo, a
qualche Ministero o alla Presidenza del Consiglio?
Le
proposte di legge finora presentate propongono soluzioni diverse tra loro.
Sciogliere questo nodo appare a molti come la questione centrale della riforma.
Sia l’agenzia che il dipartimento, però, rischiano di soffrire di un male
comune: se l’amministrazione intende utilizzarle a proprio uso e consumo,
riuscirà comunque a farlo, indipendentemente dalla soluzione.
In
realtà, nella scelta tra agenzia, dipartimento o ufficio di una Direzione
Generale, come avviene ora, ci poniamo un falso problema. La vera questione è
sotto quale responsabilità politica la nuova struttura debba essere collocata.
L’agenzia, se riusciamo a trovare un accordo, è lo strumento che garantisce
maggiore autonomia poiché non risponde “direttamente” ad un solo Ministero o
alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, come avverrebbe per il Dipartimento
o l’ufficio di una Direzione Generale.
Seconda
questione: come fissare le priorità. Il Piano Paese è lo strumento utilizzato
proficuamente nel recente passato per conoscere le esigenze formative dei Paesi
di presenza italiana e poi in molte parti tralasciato per mancanza di
convinzione del Ministero. Se riattivato in modo diffuso, da esso si possono
desumere l’entità e le caratteristiche della domanda formativa, gli
orientamenti per quanto concerne l’inserimento della lingua italiana nel
curriculum scolastico, gli interventi diretti nell’insegnamento, con impiego di
insegnanti, gli interventi indiretti, con programmi e progetti speciali, gli
interventi previsti da accordi bilaterali e gli interventi unilaterali.
Le risorse disponibili o da rendere disponibili
L’orientamento
prevalente è quello di mantenere scuola e cultura, insegnamento della lingua
italiana e promozione di lingua e cultura italiane, unite sia negli obiettivi
che negli strumenti. Possiamo pensare a una soluzione che tenga tutto insieme e
quindi coinvolga, oltre agli enti gestori, anche gli Istituti italiani di
cultura, la società Dante Alighieri e i lettorati, in una grande azione di
coordinamento che includa anche il sistema universitario e le autonomie
territoriali.
Come utilizzare le poche risorse
Oggi
siamo di fronte ad una scelta obbligata: se pensiamo che sia indispensabile
continuare ad inviare all’estero insegnanti di ruolo con le modalità attuali,
siamo destinati ad una fase di rapida involuzione. Il primo presupposto deve
essere che anche per gli insegnanti di ruolo inviati dall’Italia dove e quando
il Piano Paese lo preveda e l’Agenzia, o Dipartimento o Ufficio della DG lo
decida, abbiano un trattamento economico uguale a quello degli insegnanti
impiegati in loco. Con l’aggiunta di una “ragionevole” indennità per le spese
di prima sistemazione e di trasloco.
Il falso dilemma: pubblico o privato
Il
problema della distinzione pubblico/privato è basato su un falso presupposto.
L’intervento rimane pubblico, gli strumenti possono essere pubblici o privati
secondo le richieste del Piano Paese e comunque in linea con standard europei
sia formativi che retributivi.
Su cosa mi sentirei di scommettere?
La
Farnesina, su questo tema almeno, ha le idee molto chiare. Mantenere fermamente
il controllo sia della gestione che delle risorse. La riforma? Per i funzionari
del MAE può aspettare. Intanto nella legge sulla “buona scuola” c’è una delega
al Governo per la riorganizzazione dell’insegnamento all’estero. Senza farsi
soverchie illusioni, forse è un’occasione da cogliere.
On.
Marco Fedi