Decreto “famiglie” o elemosina di Stato?
Il decreto presentato dal governo allo scopo di sostenere le famiglie italiane non è un esempio di buona politica, poiché sceglie di procedere ancora una volta per annunci roboanti e spot propagandistici e non realizza invece il necessario e duraturo intervento di sostegno a favore delle famiglie italiane vessate dalla crisi economica.
Si prenda il bonus di 1000 euro. Un’unica e solitaria mancia che non verrà percepita da molti prima di febbraio e che non darà prospettive continuative per il rilancio dell’economia italiana a partire dalle spese dei ceti medi.
Lo stesso vale per la social card. Una tessera prepagata per acquisti nei supermercati da 40 euro al mese (un cappuccino al giorno) riservata ad anziani e genitori con bimbi sotto i 3 anni, che però devono avere meno di 6.000 euro di Isee. In totale: solo 1milione 300mila beneficiari su oltre 8 milioni di famiglie che vedono esaurire il loro reddito alla terza settimana (dati Swg). Per non parlare poi dell’annunciato blocco delle tariffe di gas e elettricità e dei pedaggi autostradali, che il governo voleva vantare come suo merito, ma che è in verità competenza dell’Authority preposta.
Questa è miopia. Occorre invece lavorare, per esempio, a interventi strutturali come la detassazione della tredicesima e la sostituzione delle detrazioni con le deduzioni fiscali, più corpose e più eque. Tra l’altro, l’insieme delle risorse messe in campo dal governo non arriva a metà di quello che finiremo di spendere per Alitalia, come ha osservato il ministro ombra dell’Economia del Pd, Pierluigi Bersani.
Il governo continua a spostare soldi da una parte all’altra, fingendo di averne reperiti e spesi di nuovi, perché si ostina a non modificare i saldi della Finanziaria che Tremonti ha elaborato a luglio. Cioè molto prima dell’esplosione della crisi finanziaria e dell’allarme recessione, e molto prima che l’Europa consentisse come fa ora qualche margine di manovra in più. Quest’ultima possibilità è rinviata al mittente dal governo con il pretesto del nostro debito pubblico enorme. È vero il debito è un grave problema - che tra l’altro solo i governi di centrosinistra hanno affrontato mentre quelli berlusconiani hanno peggiorato – ma non si può pensare di non rivedere i conti come fa il resto dell’Ue. Sarebbe un handicap pesante per l’Italia.
È il tempo di più fondi per gli ammortizzatori sociali per proteggere i lavoratori, soprattutto quelli precari, che potrebbero essere i primi a pagare le conseguenze della crisi. E si deve intervenire in sostegno di chi vive di stipendio, perché chi non spende, non lo fa per mancanza di volontà, ma per mancanza di soldi.
A chi conviene abolire le Province?
È di questi ultimi tempi la ripresa di una polemica che inserisce a pieno titolo nel filone delle discussioni sui cosiddetti “costi della politica”. Si tratta della campagna per l’abolizione delle Province, rilanciata dal quotidiano di destra “Libero” e da tempo supportata da Confindustria. L’assunto è molto semplice: le Province costerebbero troppo e, data la loro scarsa utilità, andrebbero abolite.
Il problema è che le cose non sono così semplici. Se immaginassimo di abolire questo ente, si dovrà riconoscere che le competenze da esso oggi ricoperte dovrebbero essere svolte da qualcuno altro a livello locale. La prima domanda è: chi? Le Regioni? Al di là del fatto che il personale provinciale andrebbe devoluto alle Regioni, magari tramite uffici distaccati, è davvero così corretto operare un’ulteriore centralizzazione dei poteri, in controtendenza rispetto a ogni democrazia evoluta? La verità è che in una nazione come la nostra, nella quale ci sono poco più di 8.100 Comuni di cui oltre 5.800 sono sotto i 5.000 abitanti, occorrono ancora enti di coordinamento dell’area vasta come sono le Province.
Infatti, chi ha il coraggio di dire che le funzioni della Provincia sono inutili? Oltre alle note e riconosciute competenze in materia di edilizia scolastica e di realizzazione e gestione di strade e di sistemi di viabilità sul territorio – impegni capillari difficilmente gestibili da una Regione – dalla riforma del titolo V della Costituzione in poi, sono molte le Regioni che hanno delegato alle Province le competenze in materia di lavoro e formazione professionale. Un partita non da poco, che forse qualcuno preferirebbe risolvere ai piani alti, lontano dai territori interessati e dai loro attori sul campo.
Ma non finisce qui. Quando si parla di coordinamento dell’area vasta, si intende che ci debbono essere istituzioni in grado di tessere i rapporti tra municipi più o meno grandi, costruendo strutture e servizi in rete che altrimenti molte realtà, da sole, non avrebbero. Pensiamo al lavoro che le Province possono svolgere su temi come la tutela dell’ambiente e del territorio paesaggistico, sulla promozione turistica, sull’edilizia pubblica, sull’enogastronomia, sull’offerta culturale integrata o sulla protezione civile, tutti settori che hanno peculiarità territoriali più ampie di un singolo Comune e più strette di una Regione.
Infine, torniamo ai costi. Abolire le Province - posto che non se ne possono abolire le competenze e quindi le spese per servizi, appalti, personale e uffici – vorrebbe dire solo tagliare il costo dei gettoni di presenza dei consiglieri (circa 60 euro a seduta del Consiglio) e le indennità di Presidente e Assessori (comunque inferiori a quelle dei dirigenti del loro stesso ente). Per carità si può fare tutto, ma – lasciatemelo dire – puzza tanto di demagogia, senza preoccuparsi realmente se le cose possono funzionare meglio. Non vorrei che questo tormentone fosse il solito modo interessato per delegittimare l’istituzione di turno, in modo da approfittarne per avere meno regole da rispettare, maggiore vuoto politico, più centralismo.
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