Vorrei iniziare con l’esperienza di alcuni giorni fa, a Tunisi, nel contesto di un interessante convegno sul dialogo interculturale, dove durante due momenti di dibattito attorno ai temi dell’integrazione, del dialogo tra religioni e culture, sono state poste due domande precise alla nostra attenzione.
La prima domanda è se riteniamo che stiamo vivendo uno scontro tra occidente e oriente e se questo scontro è contrastabile e con quali mezzi. La seconda domanda poneva invece accenti critici sugli organismi sopranazionali e sulla loro incapacità di dare risposte efficaci, capaci di fornire indirizzi, scelte strategiche e di cambiare in positivo la vita delle persone.
Il convegno ha provato a dare alcune risposte. La visione di uno scontro, in corso o imminente, tra occidente ed oriente è fuori dai tempi e dalla storia ma è alimentato proprio dalle stesse forze che vogliono l’emergenza, che usano le paure, che chiedono la chiusura alle contaminazioni.
La contaminazione culturale, linguistica e religiosa – oggi possibile senza invasioni, guerre, dominio coloniale – ci offre invece l’opportunità di aprire le nostre società mantenendo un sistema di regole condivise.
Sono d’accordo con chi dice che l’Unione Europea è il nostro orizzonte di riferimento e che da essa può venire una risposta al problema dell’integrazione virtuosa tra civiltà diverse. Ma nella situazione attuale sta accadendo il contrario: in controtendenza rispetto al suo progetto originario, oggi l’Europa si chiude anziché aprirsi, come dimostrano la crisi dei trattati di Lisbona, Barcellona e Schenghen. Si verifica allora una singolare e pericolosa eterogenesi dei fini: quegli organismi internazionali che dovrebbero favorire l’apertura finiscono per essere accordi instabili tra soggetti statuali differenti, ognuno impegnato nella propria politica, senza concertare realmente soluzioni comuni a problemi comuni, tra cui quello dell’immigrazione.
Ciò dimostra come gli organismi sopranazionali non siano un ostacolo ma anzi una spinta a quei processi di contaminazione di cui dicevo, solo se la guida politica è forte, se si adottano sempre più scelte di politica internazionale multilaterale, se, in sostanza, si fa meno politica estera dettata da interessi nazionali e più politica internazionale dettata dagli interessi di tutti – recuperando quindi caratteri di universalità nel pensiero e nell’azione politica. Ogni riferimento ai trattati di Lisbona e Barcellona è puramente casuale. Ogni riferimento alla necessità non di restringere ma di ampliare Schenghen, è puramente casuale.
La realtà è che i nostri Paesi rischiano di chiudersi. Le logiche della paura che oggi vengono utilizzate sono molto pericolose perché legano elementi tra loro distinti. La sicurezza e l’immigrazione, ad esempio. Per quale ragione il dibattito politico italiano confonde immigrazione, Rom e sicurezza, temi sicuramente importanti, ma che andrebbero trattati distintamente? L’impressione netta è che il Governo stia sondando il terreno e verificando – sul terreno pratico – come meglio utilizzare le logiche della paura che, pur avendo prodotto un risultato in campagna elettorale, non sempre sono immediatamente trasferibili nell’azione di Governo. Il clima politico e sociale si sta rapidamente surriscaldando, con i recenti fatti di violenza marcatamente segnati da un misto di intolleranza, razzismo, xenofobia.
Il tema della sicurezza – ad esempio – riguarda sempre tutti. Non solo i cittadini italiani. Riguarda i cittadini italiani, anche residenti all’estero, come i turisti, i temporaneamente residenti in Italia – per motivi di studio e di lavoro – gli immigrati, sia regolari che irregolari. La sicurezza riguarda tutti poiché è interesse di tutti poter vivere, lavorare ed integrarsi in serenità, armonia e nel pieno rispetto delle leggi. Non esiste altro percorso. Se desideriamo una società aperta dobbiamo costruire le condizioni per determinare i flussi d’ingresso, le politiche d’integrazione, le politiche di tutela ed il rispetto delle leggi dello Stato, con analoga severità per chiunque non le rispetti. La Costituzione della Repubblica italiana, prima che le scelte politiche, ce lo impone.
L’immigrazione regolare è utile all’Italia, è necessaria in termini economici ma anche in termini culturali e sociali. L’immigrazione irregolare, se determinatasi per incapacità del sistema di gestire i flussi o per incapacità del sistema di definire flussi rispondenti ai bisogni del Paese o per incapacità del sistema a garantire criteri realistici per la regolarizzazione, deve essere combattuta proprio dando risposta alle insufficienze del sistema, attraverso le riforme. La prima vittima della violenza, del razzismo e della xenofobia è proprio la capacità di vedere lontano. Vedere a 25,000 mila chilometri di distanza.
Abbiamo una sola Australia, ma due dimensioni, due lati della stessa medaglia. La positiva esperienza di integrazione civile degli immigrati in Australia che ha il suo fulcro nel rispetto della diversità culturale delle comunità, nelle scelte politiche nazionali e statali contraddistinte da un solido coordinamento, nell’offerta di servizi sociali ad ampio spettro.
La politica del multiculturalismo, sviluppatasi con la creazione di strumenti tesi a mantenere e sviluppare l’identità culturale delle persone – come l’SBS, rete radiotelevisiva multiculturale o gli Office of Multicultural Affairs nei vari stati o i provvedimenti legislativi contro la discriminazione razziale, religiosa o culturale – non ha mai confuso il tema dell’appartenenza ad un Paese, l’Australia, di cui si abbracciano lingua, cultura, tradizioni, valori e principi proprio con la “naturalizzazione”, cioè la libera scelta di diventare cittadini australiani. La politica multiculturale ha messo tutti noi immigrati in grado di dare il meglio della nostra identità per essere australiani “non omologati”, persone che costruiscono una realtà che è ricca e composita, diversa. Dicevamo, un tempo, vogliamo determinare “what kind of australians we are going to be”, che tipo di australiani saremo, e vogliamo farlo mantenendo la nostra cultura, identità, lingua, religione, perché così facendo davvero miglioriamo “the social fabric” il tessuto sociale in cui viviamo, le opportunità di conoscenza e crescita reciproca, le opportunità anche di sviluppo economico, il nostro modo di essere australiani e italiani e europei e… mediterranei… e universali, e qualsiasi altra cosa decidiamo di essere, liberamente decidiamo di essere. Questa condizione è stata raggiunta in due modi: flussi regolati e decisi in base a stringenti interessi nazionali, controlli severissimi ai confini, sia di terra che di aria e mare, accordi con i paesi da cui partono le imbarcazioni della speranza.
Abbiamo, accanto a queste scelte politiche, rispetto alle quali possiamo discutere, anche da posizioni diverse, ma che rimangono ragionevoli, accanto a queste misure dicevo abbiamo l’Australia che ha deciso l’extraterritorialità delle isole del pacifico così da farvi arrivare le imbarcazioni della speranza evitando quindi l’obbligo di dare assistenza legale ai richiedenti asilo. L’Australia dell’episodio della Tampa, l’imbarcazione norvegese a cui non si consentì l’attracco in porti australiani. Le condizioni nei centri di detenzione australiani con molti documentati episodi di autolesionismo – condizioni ripetutamente denunciate da organizzazioni internazionali. E le ultime restrizioni, in ordine di tempo, in termini di cittadinanza, anch’esse introdotte dal Governo Howard.
Questa seconda Australia si chiudeva ogni giorno di più. Agiva contro principi umanitari decisi dalla comunità internazionale molti anni fa, come l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati politici che stabilisce che “i clandestini a bordo di navi devono essere accolti dal porto più vicino al quale si trovano nel momento in cui vengono individuati”. Utilizzava ogni strumento mediatico per contribuire a far nascere una sensazione di emergenza. Un’emergenza che non c’era. Prove di forza con le imbarcazioni che arrivavano e venivano intercettate, la detenzione, molto simile alla carcerazione, in luoghi isolati dell’interno dell’Australia.
Un Paese imperfetto, quindi l’Australia.
L’Italia ….. invece …. Paese perfetto!
Il decreto sicurezza, che ora passa alla Camera, ci propone un’Italia militarizzata, ma solo nelle immagini. Quindi, alla politica sostituiamo l’immagine, alle riforme le enunciazioni tese a creare l’emergenza che non c’è, alle forze dell’ordine cui siamo abituati i militari con mitra. Non ci preoccupano derive “antidemocratiche” o “dittatoriali” ma l’inutilità di una norma che porta sul territorio solo “l’immagine” dell’esercito che andrebbe utilizzato in bel altre circostanze per operazioni di controllo del territorio. Un altro aspetto inammissibile del decreto è l’aggravante di un terzo della pena per i clandestini. Ancora una volta una misura aliena al diritto di tutti i Paesi civili del mondo e utile solo a criminalizzare i migranti, senza governare il fenomeno. Ed il reato di “immigrazione clandestina”! Un reato, quindi con arresto immediato, che porterebbe davvero il nostro sistema giudiziario e carcerario in ginocchio. Ma non è questo che ci preoccupa: anche qui la questione centrale è l’immagine di durezza. Poiché sarà ingestibile questa norma, alla fine produrrà ciò che già produce la nostra legislazione, cioè la identificazione di coloro che arrivano in Italia senza visto o permesso di soggiorno, la loro accoglienza ed il rimpatrio. Come avviene in tutti i paesi imperfetti.
Non parlo dell’inserimento nel decreto sicurezza della norma “salva-premier”. Solo un paese perfetto può produrre in un unico provvedimento tanta cattiva politica.
Ma in Italia si assiste invece – l’ho visto bene in oltre due anni da parlamentare - a una situazione di mancanza di omogeneità nelle politiche per l’integrazione promosse dai soggetti pubblici, a livello centrale e periferico, che la riforma Amato-Ferrero avrebbe potuto in parte sanare, se non fosse stata accantonata dal nuovo governo.
Al contempo, spero che non venga abbandonato neanche il lavoro nella precedente legislatura fatto sulla riforma della legge sulla cittadinanza. Essa consentirebbe la riduzione sacrosanta dei tempi di attesa per ottenere la cittadinanza italiana, da dieci a cinque anni, per quelle persone immigrate che vivono regolarmente in Italia, lavorando e contribuendo, non solo sotto il profilo economico ma anche sotto quello sociale e culturale. Senza costi aggiuntivi, la riforma potrebbe inoltre favorire l’inserimento degli stranieri anche nell’ambito della partecipazione alla vita politica nazionale.
In conclusione, vorrei allora avanzare delle proposte concrete. Io credo che in primo luogo, per le ragioni già esposte, l’Italia dovrà guardare certamente alla sua collocazione europea e auspico il superamento della crisi attuale per una maggiore solidità politica dell’Unione nelle sue politiche comuni. Tuttavia, non posso che ribadire un mio convincimento: un governo globale delle migrazioni non può venire solo dal mero livello europeo, che è necessario ma non sufficiente, come ci dimostra anche l’episodio già citato della Tampa. Occorrerà invece un rafforzamento politico di tutte le istituzioni soprannazionali in un ottica di collaborazione e apertura.
Nel medio periodo, il problema principale che si pone è quello di un governo dei flussi che, responsabilmente, potrebbe avvalersi della cooperazione con i Paesi di provenienza dei migranti e che dovrebbe essere risolto ricorrendo sempre meno alla militarizzazione dei confini e alla detenzione dei migranti, con severità e disponibilità insieme. A ciò si aggiunge l’esigenza di investire su una seria governance dell’integrazione al fine di consentire a tutti gli immigrati regolari la possibilità di inserirsi nel Paese che li ospita, conoscerne la lingua e la cultura, accedere ai servizi sociali come sanità e istruzione, avere prospettive di collocamento professionale che non siano il “sommerso” o peggio la criminalità. Non potrà quindi mancare un lavoro attento di coordinamento e di monitoraggio sull’insieme delle strutture e delle istituzioni addette al governo dei flussi e dell’integrazione, se necessario attraverso la riforma o la costituzione di organismi ad hoc.
Ma ciò che mi preme maggiormente di ribadire, vista anche l’attualità del tema, è che non potrà nascere nessuna buona politica migratoria se non si spezzerà il binomio dannoso che lega nell’opinione pubblica – purtroppo anche per colpa di alcuni politici e di certi media – l’immigrazione alla sicurezza. Ridurre l’esperienza enorme dello spostamento delle persone nel mondo alla mera dimensione securitaria non permetterà di sfruttare le risorse sprigionate dal contatto tra civiltà diverse e può condurre al rischio di danni incalcolabili.
La prima domanda è se riteniamo che stiamo vivendo uno scontro tra occidente e oriente e se questo scontro è contrastabile e con quali mezzi. La seconda domanda poneva invece accenti critici sugli organismi sopranazionali e sulla loro incapacità di dare risposte efficaci, capaci di fornire indirizzi, scelte strategiche e di cambiare in positivo la vita delle persone.
Il convegno ha provato a dare alcune risposte. La visione di uno scontro, in corso o imminente, tra occidente ed oriente è fuori dai tempi e dalla storia ma è alimentato proprio dalle stesse forze che vogliono l’emergenza, che usano le paure, che chiedono la chiusura alle contaminazioni.
La contaminazione culturale, linguistica e religiosa – oggi possibile senza invasioni, guerre, dominio coloniale – ci offre invece l’opportunità di aprire le nostre società mantenendo un sistema di regole condivise.
Sono d’accordo con chi dice che l’Unione Europea è il nostro orizzonte di riferimento e che da essa può venire una risposta al problema dell’integrazione virtuosa tra civiltà diverse. Ma nella situazione attuale sta accadendo il contrario: in controtendenza rispetto al suo progetto originario, oggi l’Europa si chiude anziché aprirsi, come dimostrano la crisi dei trattati di Lisbona, Barcellona e Schenghen. Si verifica allora una singolare e pericolosa eterogenesi dei fini: quegli organismi internazionali che dovrebbero favorire l’apertura finiscono per essere accordi instabili tra soggetti statuali differenti, ognuno impegnato nella propria politica, senza concertare realmente soluzioni comuni a problemi comuni, tra cui quello dell’immigrazione.
Ciò dimostra come gli organismi sopranazionali non siano un ostacolo ma anzi una spinta a quei processi di contaminazione di cui dicevo, solo se la guida politica è forte, se si adottano sempre più scelte di politica internazionale multilaterale, se, in sostanza, si fa meno politica estera dettata da interessi nazionali e più politica internazionale dettata dagli interessi di tutti – recuperando quindi caratteri di universalità nel pensiero e nell’azione politica. Ogni riferimento ai trattati di Lisbona e Barcellona è puramente casuale. Ogni riferimento alla necessità non di restringere ma di ampliare Schenghen, è puramente casuale.
La realtà è che i nostri Paesi rischiano di chiudersi. Le logiche della paura che oggi vengono utilizzate sono molto pericolose perché legano elementi tra loro distinti. La sicurezza e l’immigrazione, ad esempio. Per quale ragione il dibattito politico italiano confonde immigrazione, Rom e sicurezza, temi sicuramente importanti, ma che andrebbero trattati distintamente? L’impressione netta è che il Governo stia sondando il terreno e verificando – sul terreno pratico – come meglio utilizzare le logiche della paura che, pur avendo prodotto un risultato in campagna elettorale, non sempre sono immediatamente trasferibili nell’azione di Governo. Il clima politico e sociale si sta rapidamente surriscaldando, con i recenti fatti di violenza marcatamente segnati da un misto di intolleranza, razzismo, xenofobia.
Il tema della sicurezza – ad esempio – riguarda sempre tutti. Non solo i cittadini italiani. Riguarda i cittadini italiani, anche residenti all’estero, come i turisti, i temporaneamente residenti in Italia – per motivi di studio e di lavoro – gli immigrati, sia regolari che irregolari. La sicurezza riguarda tutti poiché è interesse di tutti poter vivere, lavorare ed integrarsi in serenità, armonia e nel pieno rispetto delle leggi. Non esiste altro percorso. Se desideriamo una società aperta dobbiamo costruire le condizioni per determinare i flussi d’ingresso, le politiche d’integrazione, le politiche di tutela ed il rispetto delle leggi dello Stato, con analoga severità per chiunque non le rispetti. La Costituzione della Repubblica italiana, prima che le scelte politiche, ce lo impone.
L’immigrazione regolare è utile all’Italia, è necessaria in termini economici ma anche in termini culturali e sociali. L’immigrazione irregolare, se determinatasi per incapacità del sistema di gestire i flussi o per incapacità del sistema di definire flussi rispondenti ai bisogni del Paese o per incapacità del sistema a garantire criteri realistici per la regolarizzazione, deve essere combattuta proprio dando risposta alle insufficienze del sistema, attraverso le riforme. La prima vittima della violenza, del razzismo e della xenofobia è proprio la capacità di vedere lontano. Vedere a 25,000 mila chilometri di distanza.
Abbiamo una sola Australia, ma due dimensioni, due lati della stessa medaglia. La positiva esperienza di integrazione civile degli immigrati in Australia che ha il suo fulcro nel rispetto della diversità culturale delle comunità, nelle scelte politiche nazionali e statali contraddistinte da un solido coordinamento, nell’offerta di servizi sociali ad ampio spettro.
La politica del multiculturalismo, sviluppatasi con la creazione di strumenti tesi a mantenere e sviluppare l’identità culturale delle persone – come l’SBS, rete radiotelevisiva multiculturale o gli Office of Multicultural Affairs nei vari stati o i provvedimenti legislativi contro la discriminazione razziale, religiosa o culturale – non ha mai confuso il tema dell’appartenenza ad un Paese, l’Australia, di cui si abbracciano lingua, cultura, tradizioni, valori e principi proprio con la “naturalizzazione”, cioè la libera scelta di diventare cittadini australiani. La politica multiculturale ha messo tutti noi immigrati in grado di dare il meglio della nostra identità per essere australiani “non omologati”, persone che costruiscono una realtà che è ricca e composita, diversa. Dicevamo, un tempo, vogliamo determinare “what kind of australians we are going to be”, che tipo di australiani saremo, e vogliamo farlo mantenendo la nostra cultura, identità, lingua, religione, perché così facendo davvero miglioriamo “the social fabric” il tessuto sociale in cui viviamo, le opportunità di conoscenza e crescita reciproca, le opportunità anche di sviluppo economico, il nostro modo di essere australiani e italiani e europei e… mediterranei… e universali, e qualsiasi altra cosa decidiamo di essere, liberamente decidiamo di essere. Questa condizione è stata raggiunta in due modi: flussi regolati e decisi in base a stringenti interessi nazionali, controlli severissimi ai confini, sia di terra che di aria e mare, accordi con i paesi da cui partono le imbarcazioni della speranza.
Abbiamo, accanto a queste scelte politiche, rispetto alle quali possiamo discutere, anche da posizioni diverse, ma che rimangono ragionevoli, accanto a queste misure dicevo abbiamo l’Australia che ha deciso l’extraterritorialità delle isole del pacifico così da farvi arrivare le imbarcazioni della speranza evitando quindi l’obbligo di dare assistenza legale ai richiedenti asilo. L’Australia dell’episodio della Tampa, l’imbarcazione norvegese a cui non si consentì l’attracco in porti australiani. Le condizioni nei centri di detenzione australiani con molti documentati episodi di autolesionismo – condizioni ripetutamente denunciate da organizzazioni internazionali. E le ultime restrizioni, in ordine di tempo, in termini di cittadinanza, anch’esse introdotte dal Governo Howard.
Questa seconda Australia si chiudeva ogni giorno di più. Agiva contro principi umanitari decisi dalla comunità internazionale molti anni fa, come l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati politici che stabilisce che “i clandestini a bordo di navi devono essere accolti dal porto più vicino al quale si trovano nel momento in cui vengono individuati”. Utilizzava ogni strumento mediatico per contribuire a far nascere una sensazione di emergenza. Un’emergenza che non c’era. Prove di forza con le imbarcazioni che arrivavano e venivano intercettate, la detenzione, molto simile alla carcerazione, in luoghi isolati dell’interno dell’Australia.
Un Paese imperfetto, quindi l’Australia.
L’Italia ….. invece …. Paese perfetto!
Il decreto sicurezza, che ora passa alla Camera, ci propone un’Italia militarizzata, ma solo nelle immagini. Quindi, alla politica sostituiamo l’immagine, alle riforme le enunciazioni tese a creare l’emergenza che non c’è, alle forze dell’ordine cui siamo abituati i militari con mitra. Non ci preoccupano derive “antidemocratiche” o “dittatoriali” ma l’inutilità di una norma che porta sul territorio solo “l’immagine” dell’esercito che andrebbe utilizzato in bel altre circostanze per operazioni di controllo del territorio. Un altro aspetto inammissibile del decreto è l’aggravante di un terzo della pena per i clandestini. Ancora una volta una misura aliena al diritto di tutti i Paesi civili del mondo e utile solo a criminalizzare i migranti, senza governare il fenomeno. Ed il reato di “immigrazione clandestina”! Un reato, quindi con arresto immediato, che porterebbe davvero il nostro sistema giudiziario e carcerario in ginocchio. Ma non è questo che ci preoccupa: anche qui la questione centrale è l’immagine di durezza. Poiché sarà ingestibile questa norma, alla fine produrrà ciò che già produce la nostra legislazione, cioè la identificazione di coloro che arrivano in Italia senza visto o permesso di soggiorno, la loro accoglienza ed il rimpatrio. Come avviene in tutti i paesi imperfetti.
Non parlo dell’inserimento nel decreto sicurezza della norma “salva-premier”. Solo un paese perfetto può produrre in un unico provvedimento tanta cattiva politica.
Ma in Italia si assiste invece – l’ho visto bene in oltre due anni da parlamentare - a una situazione di mancanza di omogeneità nelle politiche per l’integrazione promosse dai soggetti pubblici, a livello centrale e periferico, che la riforma Amato-Ferrero avrebbe potuto in parte sanare, se non fosse stata accantonata dal nuovo governo.
Al contempo, spero che non venga abbandonato neanche il lavoro nella precedente legislatura fatto sulla riforma della legge sulla cittadinanza. Essa consentirebbe la riduzione sacrosanta dei tempi di attesa per ottenere la cittadinanza italiana, da dieci a cinque anni, per quelle persone immigrate che vivono regolarmente in Italia, lavorando e contribuendo, non solo sotto il profilo economico ma anche sotto quello sociale e culturale. Senza costi aggiuntivi, la riforma potrebbe inoltre favorire l’inserimento degli stranieri anche nell’ambito della partecipazione alla vita politica nazionale.
In conclusione, vorrei allora avanzare delle proposte concrete. Io credo che in primo luogo, per le ragioni già esposte, l’Italia dovrà guardare certamente alla sua collocazione europea e auspico il superamento della crisi attuale per una maggiore solidità politica dell’Unione nelle sue politiche comuni. Tuttavia, non posso che ribadire un mio convincimento: un governo globale delle migrazioni non può venire solo dal mero livello europeo, che è necessario ma non sufficiente, come ci dimostra anche l’episodio già citato della Tampa. Occorrerà invece un rafforzamento politico di tutte le istituzioni soprannazionali in un ottica di collaborazione e apertura.
Nel medio periodo, il problema principale che si pone è quello di un governo dei flussi che, responsabilmente, potrebbe avvalersi della cooperazione con i Paesi di provenienza dei migranti e che dovrebbe essere risolto ricorrendo sempre meno alla militarizzazione dei confini e alla detenzione dei migranti, con severità e disponibilità insieme. A ciò si aggiunge l’esigenza di investire su una seria governance dell’integrazione al fine di consentire a tutti gli immigrati regolari la possibilità di inserirsi nel Paese che li ospita, conoscerne la lingua e la cultura, accedere ai servizi sociali come sanità e istruzione, avere prospettive di collocamento professionale che non siano il “sommerso” o peggio la criminalità. Non potrà quindi mancare un lavoro attento di coordinamento e di monitoraggio sull’insieme delle strutture e delle istituzioni addette al governo dei flussi e dell’integrazione, se necessario attraverso la riforma o la costituzione di organismi ad hoc.
Ma ciò che mi preme maggiormente di ribadire, vista anche l’attualità del tema, è che non potrà nascere nessuna buona politica migratoria se non si spezzerà il binomio dannoso che lega nell’opinione pubblica – purtroppo anche per colpa di alcuni politici e di certi media – l’immigrazione alla sicurezza. Ridurre l’esperienza enorme dello spostamento delle persone nel mondo alla mera dimensione securitaria non permetterà di sfruttare le risorse sprigionate dal contatto tra civiltà diverse e può condurre al rischio di danni incalcolabili.
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