Questa legislatura sembra essersi avviata all’insegna di una
diversa sensibilità verso i molteplici e complessi problemi d’integrazione che
gli italiani debbono affrontare, sia dentro che fuori dai confini nazionali. Sin
dal voto di fiducia al nuovo Governo, il Presidente Letta, in un breve ma significativo
passaggio, ha dichiarato la volontà di valorizzare la presenza dei “nuovi
italiani ” e di far tesoro della risorsa costituita dai 4 milioni e mezzo di
cittadini italiani che vivono all’estero, senza contare i sessanta milioni di
italo-discendenti presenti in diverse parti vitali del
mondo.
Noi eletti all’estero, poi, non
abbiamo mancato di sottolineare il valore, non solo simbolico, ma politico
culturale ed etico, della nomina di un migrante a Ministro dell’integrazione. Mi
permetto di dire, anche in relazione alle scomposte reazioni che questa
decisione ha suscitato, che il fatto che alcuni rappresentanti istituzionali
degli emigrati italiani abbiano pubblicamente condiviso questa decisione e
riconoscano nel Ministro Kyenge un interlocutore serio e positivo per diverse
questioni riguardanti le comunità italiane all’estero, sia un segnale da non
minimizzare dei cambiamenti culturali e politici che stanno avvenendo in questo
campo. Tuttavia, non ci siamo fermati ai messaggi.
Integrarsi – lo sappiamo
bene noi che l’abbiamo dovuto fare nelle nostre società di insediamento –
significa intraprendere nuovi percorsi sociali, stabilire nuove relazioni,
misurarsi con altre culture e altri modelli di vita, ma anche individuare
interlocutori istituzionali con cui dialogare e trovare risposte a problemi
concreti e impellenti. Da parlamentari quali siamo, con un forte radicamento
nelle comunità italiane all’estero ma “senza vincolo di mandato”, come recita la
Costituzione, abbiamo cercato di sostanziare questa prospettiva di lavoro
sull’integrazione con una serie di atti che tengano conto delle esigenze che si
manifestano sui due versanti, quello dell’emigrazione e quello
dell’immigrazione. Abbiamo dunque avanzato proposte sul tema della cittadinanza
e su quello del rilancio delle convenzioni bilaterali di sicurezza sociale con
paesi nei quali sono presenti comunità italiane e dei quali ospitiamo non meno
importanti comunità, sul tema della formazione dei giovani ad una cultura
dell’integrazione mediante l’insegnamento multidisciplinare dell’emigrazione nel
quadro delle migrazioni contemporanee e sulla trasformazione del Museo
dell’emigrazione italiana in Museo delle migrazioni, sulla creazione di una sede
istituzionale di partecipazione degli stranieri in Italia e sui delicati
problemi previdenziali che riguardano sia gli emigrati che gli
immigrati.
Crediamo, comunque, che dobbiamo riflettere insieme
sull’opportunità di dare sviluppo, almeno sugli aspetti che si prestino a farlo,
a questo lavoro comune sui due versanti che ci interessano. Non è mancata in
passato qualche voce dubbiosa, nel senso di considerare più proficuo una
distinzione nel modo di lavorare e nella ricerca di soluzioni specifiche, per
gli italiani all’estero e per gli stranieri in Italia. La nostra idea è che, in
un paese come l’Italia che ha sacche piuttosto ampie di resistenza al mutamento
sociale e culturale, anche per l’incidenza della crisi che acutizza i problemi
aperti, sia opportuno costruire insieme il campo della cultura e delle pratiche
dell’integrazione. Non si tratta di fare semplicistiche assimilazioni tra gli
italiani all’estero e gli stranieri in Italia né di perdere il senso della
specificità dei problemi da affrontare, entrando in una dimensione di generiche
affermazioni di principio in cui tutti i gatti diventano
bigi.
Si tratta di riportare a galla,
invece, quella cultura della mobilità che ha attraversato molte generazioni di
italiani e dimostrare con i fatti che il contributo che i nostri connazionali
hanno dato allo sviluppo e alla modernizzazione di intere aree del pianeta,
altri oggi lo possono dare a noi, aiutandoci a superare la grave crisi che
attraversiamo. Sul piano etico, poi, noi possiamo aiutare gli italiani a
convincersi che non è giusto fare agli altri quello che gli altri hanno fatto a
noi, dal razzismo all’emarginazione, dallo sfruttamento all’insicurezza e alle
tragedie sul lavoro, dalla selezione scolastica dei ragazzi immigrati al non
riconoscimento delle competenze e del merito.
Ci auguriamo che questa
volontà di intrecciare le nostre energie e di concorrere allo sviluppo di un
unitario, anche se articolato processo di integrazione, sia condivisa anche da
voi. Anche perché ci sono serie questioni che dentro e fuori dal Parlamento ci
impongono un confronto immediato. Ad iniziare dal tema della cittadinanza. Non
abbiamo avuto alcuna esitazione, noi parlamentari del PD eletti all’estero, a
sostenere con convinzione il proposito del Ministro Kyenge e di componenti
politiche importanti, di attualizzare con realismo e umanità le forme di
concessione della cittadinanza agli stranieri, a partire dai ragazzi che nascono
in Italia. Alle vestali dello jus sanguinis, che pure per gli italiani
all’estero è il principio guida del riconoscimento della loro cittadinanza,
abbiamo ricordato che milioni e milioni di italiani sono diventati cittadini di
altri paesi perché hanno potuto godere dello jus soli riconosciuto da nazioni
che, in conseguenza delle migrazioni internazionali, sono diventate tra le più
moderne e potenti del mondo. Anzi, ci sembra arrivato il momento di rilanciare
in termini generali il confronto culturale e giuridico sulla cittadinanza, non
pretendendo banalmente di sostituire un principio all’altro, come in un gioco di
scatole cinesi, ma interrogandosi seriamente sul modo come cercare un equilibrio
tra lo ius sanguinis e lo jus soli, adeguato ai tempi e alla realtà di un Paese
come l’Italia che ormai ha nel suo territorio tante persone di origine straniera
quanti cittadini residenti oltre i confini.
Sul piano normativo, non si
possono avere più remore a rimettere mano, con serietà e senza permissivismo,
alla legge sulla cittadinanza del ’92. Si tratta di fare oggi l’operazione di
inquadramento giuridico e culturale che si fece vent’anni fa rispetto alla
vecchia legge del 1912. Il passo più importante da compiere è quello che altri
nostri partner hanno fatto da anni, vale a dire adeguare la normativa alla
transizione sociale avvenuta negli ultimi decenni a seguito delle migrazioni.
Voglio dire, però con sincerità che sarebbe per noi deludente se in una materia
tanto delicata si operasse per compartimenti stagno e in un’ottica di pura
emergenza, limitandosi a dare risposte parziali alla questione della
cittadinanza e mutilandola di alcune sue articolazioni. Pensiamo, in concreto,
che contestualmente alle decisioni che si andranno a prendere per la concessione
della cittadinanza a chi è in Italia, non si possano eludere situazioni
altrettanto urgenti attinenti alla condizione degli italiani all’estero. Mi
riferisco a due aspetti, che mi limito ad accennare. Il primo si riferisce alle
donne che hanno perduto la cittadinanza senza colpa per avere sposato uno
straniero e non la possono trasmettere ai loro figli. Anzi, dopo alcune sentenze
che hanno eccepito l’incostituzionalità di tale privazione, l’hanno potuta
trasmettere ai figli nati dopo l’entrata in vigore della Costituzione, non a
quelli nati prima. Sicché, in una stessa famiglia, alcuni figli di una stessa
madre sono cittadini, altri non lo sono.
Una sentenza della
Cassazione ha consentito di superare questa aberrazione sul piano
giurisdizionale, non su quello amministrativo perché manca una banale modifica
della legge. Temiamo che procedere nella direzione della concessione della
cittadinanza ai figli di stranieri, com’è giusto che avvenga, senza rimuovere
questa contraddizione che pesa sui figli degli italiani possa offrire pretesti a
chi li cerca per non farne niente.
Un secondo aspetto non più rinviabile è
quello riguardante gli italiani che, emigrati in altri paesi, si son dovuti
naturalizzare per ragioni di lavoro. Essi sono nati in Italia e vorrebbero
morire italiani, ora che è consentito quasi ovunque la duplice cittadinanza. E’
giusto negargli questo riconoscimento?
Prima di concludere, vorrei
accennare ad un’altra proposta, da me avanzata assieme agli altri colleghi del
PD eletti all’estero, che vi riguarda direttamente. Riflettendo sul laboratorio
australiano, che conosco bene, abbiamo proposto l’istituzione di un Consiglio
nazionale per l’integrazione e il multiculturalismo. L’intento è quello di
stabilizzare e dare continuità alle politiche dell’integrazione creando una sede
riconosciuta istituzionalmente nella quale si possano elaborare proposte e
realizzare un coordinamento pi ù efficace di tali politiche, con la
partecipazione degli stessi immigrati tramite le loro
associazioni.
Oltre a svolgere attività
consultiva di vari organismi e a contribuire alla elaborazione della
legislazione in materia, il
Consiglio si può dotare di un osservatorio capace di monitorare
le modalità di integrazione e lo sviluppo del multiculturalismo in Italia. Anche
in questo caso, ci ha aiutato a capire e a individuare qualche soluzione
l’esperienza fatta nel percorso di costruzione della rappresentanza degli
italiani all’estero per aprire spazi di partecipazione.
Non ho più il tempo
per accennare ad altre iniziative, in corso o possibili. In conclusione vorrei
ribadire la fecondità di un impegno comune per l’integrazione sostanziato di
esperienze vissute dagli italiani in paesi stranieri e da stranieri in Italia.
Sarebbe certamente utile per contenere e ridurre il provincialismo che ancora
irretisce certe posizioni politiche e la stessa opinione pubblica su queste
cose, e per temperare pregiudizi e resistenze. Per quanto ci riguarda come
parlamentari eletti all’estero, spesso ci sentiamo ripetere che la nostra
presenza si rivelerà feconda solo se riuscirà a diventare un valore aggiunto per
il Parlamento e per l’opinione pubblica. Ebbene, ci piacerebbe aggiungere valore
alla democrazia italiana soprattutto nel campo della cultura e delle buone
pratiche di integrazione, riportando in Italia il meglio delle esperienze che
gli italiani hanno vissuto come emigrati e come “nuovi cittadini” di importanti
paesi del mondo.